Gentile direttore,
favorire il distanziamento e la sicurezza nelle Rsa oppure la socializzazione e la qualità di vita? Nelle Rsa si sta vivendo questo dilemma reso drammatico dalla pandemia di Covid-19. Sulle pagine di ‘Avvenire’ lo psicogeriatra Marco Trabucchi, il professor Marco Impagliazzo (Comunità di Sant’Egidio), Angelo Chiorazzo (Aauxilium) e Franco Massi (Uneba) hanno già fornito importanti indicazioni per preparare un futuro migliore. Da parte mia, sono un medico-psicoterapeuta che lavora per le Rsa di tutta Italia come formatore, vorrei portare un contributo basato sull’esperienza di centinaia di operatori impegnati sul campo.
Negli ultimi anni è stato fatto molto per migliorare gli aspetti logistico-alberghieri delle Rsa e per offrire ai residenti attività ludico-riabilitative quotidiane e diversificate. Leggendo la Carta dei Servizi delle Rsa si coglie la volontà di fornire un’assistenza centrata sulla persona. I risultati però non sono ancora soddisfacenti. Perché? Una risposta si intravvede nella lettera di Massi dove scrive che c’è bisogno di «professionisti dell’assistenza, non operatori improvvisati ». Il clima delle Rsa, la qualità di vita dei residenti, dipende da tanti fattori: sicuramente dall’ambiente fisico, dall’organizzazione e dalle attività proposte, ma soprattutto dalle persone che interagiscono giorno e notte, tutti giorni, con gli anziani residenti. Le figure che ruotano attorno agli anziani sono molte, ciascuna con una sua professionalità: animatori, arteterapeuti, assistenti sociali, coordinatori, educatori, fisioterapisti, infermieri, logopedisti, medici, musicoterapeuti, operatori dell’assistenza Asa e Oss, psicologi, terapisti occupazionali, familiari e volontari. Pochi si rendono conto della complessità dell’assistenza necessaria.
Il problema che vorrei mettere a fuoco è che la tipologia di persone che chiedono di essere ammesse nelle Rsa sta rapidamente cambiando e il personale si trova impreparato a rispondere in modo adeguato. Normalmente non è il diretto interessato a fare richiesta di ricovero, ma sono i parenti, oberati da un carico assistenziale che è diventato insostenibile e che richiede competenze specifiche. Infatti, i nuovi ricoverati sono sempre più anziani, sempre più fragili e affetti da pluripatologie, sempre meno autosufficienti (oggi gli anziani autosufficienti che entrano in Rsa sono rare eccezioni). Spesso con Alzheimer o altre forme di demenza, quasi tutti hanno problemi di memoria e di orientamento. Questa è la nuova realtà con cui devono confrontarsi gli operatori.
La formazione universitaria, per esempio quella dei medici, degli infermieri e dei fisioterapisti, non è sufficiente; anche i corsi professionali, per esempio quelli per gli Oss, sono centrati più sulle tecniche assistenziali che sulla relazione con l’anziano. Tutti si trovano sprovvisti di strumenti specifici, si trovano a dover improvvisare l’attività professionale cercando di adattare quello che è stato loro insegnato alla realtà delle Rsa, molto diversa da quella che si aspettavano. Se consideriamo che nelle Rsa vivono per lo più anziani smemorati e disorientati, spesso con disturbi comportamentali (dall’apatia all’agitazione e all’aggressività) si capisce come gli operatori siano a loro volta disorientati e a rischio di burnout. Spesso ci sono problemi di comunicazione: gli operatori parlano e gli anziani non capiscono o dimenticano subito; provano ad ascoltare, ma sentono solo un’insalata di parole incomprensibili. Gli anziani provano a esprimersi ma non vengono capiti o talvolta non vengono neppure ascoltati; cercano di capire ma non ci riescono. Ciascuno dà il meglio di sé, vorrebbe fare bene, ma non ha gli strumenti per farlo. Questo è il problema.
Per trovare una via d’uscita a questa situazione credo che sia necessario prendere atto della presenza nelle Rsa di molte persone con deficit di memoria e disorientate; fornire a tutti gli operatori, dal medico all’Oss, una formazione specifica che non si limiti a offrire pratiche sanitarie, riabilitative e ricreative formalmente corrette, ma che insegni ad ascoltare e a parlare con queste persone. È necessaria una formazione dedicata per favorire una convivenza sufficientemente felice, in ogni ora del giorno e della notte, mentre ciascuno svolge le proprie mansioni specifiche o incontra anche occasionalmente l’anziano residente.
Non è sufficiente dichiarare di voler fornire un’assistenza centrata sulla persona, bisogna sapere anche come fare, rendendosi conto che nei casi più gravi può essere addirittura difficile riconoscere nell’altro, per esempio nell’anziano con una demenza di grado moderato-severo, una persona.
Pietro Vigorelli, Psicoterapeuta, promotore dell’ «Approccio Capacitante»
(Avvenire)