15 Novembre, 2024
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La cura che non c’è. Il collasso della medicina territoriale durante la pandemia

Una approfondita analisi di una questione prioritaria

«Siamo stati abbandonati dalla sanità». Un viaggio dentro le denunce e le richieste di aiuto dei malati covid domiciliati nelle proprie abitazioni, spesso dimenticati dai presidi di medicina territoriale che non riescono a gestire

La pandemia di Covid-19 sta cambiando l’Italia, il mondo e ciascuno di noi. Ci ha tolto ogni sicurezza, ci ha vestiti di mascherine e guanti, ci ha privato di abbracci e strette di mani. È un evento che ha costretto tutti a una riflessione sulle relazioni e sul valore dei gesti quotidiani, è piombato come un terremoto destinato a lasciare il segno e ha fatto vacillare le speranze evocate da quell’#andràtuttobene che si fa via via sempre meno convincente.

La Covid-19 ha colpito chiunque, senza troppe distinzioni e spesso, purtroppo, non risparmia. In nove mesi, i nostri ospedali si sono riempiti di pazienti in condizioni critiche e i medici in prima linea sono stati definiti gli “eroi” della pandemia. Ma, nel tempo, la pandemia ha fatto emergere anche le fragilità di una sanità pubblica traballante, l’assenza di una medicina territoriale realmente, impreparata all’emergenza e a gestire il collasso ospedaliero. Le storie che raccontano questa amara verità oramai si accumulano.

 

 

SIAMO IN PIEMONTE…

Donatella racconta che durante la prima settimana di febbraio, il compagno era in ospedale per sconfiggere un tumore. «Era da poco che si sentiva parlare di Covid-19, in Cina, ma noi avevamo altro a cui pensare, un tumore fa più paura di un virus che sta oltre confine», dice. Ma poi passano i giorni e la minaccia del virus si trasforma in pandemia. Come tutti, Donatella è allarmata, prende ogni precauzione, mascherine, guanti, Amuchina. Passano i mesi, passa anche l’estate. I bambini tornano a scuola e torna a scuola anche il figlio di Donatella, di otto anni. «Suona la sveglia, sono le ore 7 del 7 ottobre, mio figlio si sveglia tossendo, gli misuro la temperatura ed è a 37 gradi. Aspetto fino alle 8 per avvisare la scuola, dopo qualche ora la temperatura sale e sale anche a me, cerco di contattare il suo pediatra e il mio medico senza riuscirci. Assumiamo rispettivamente io la Tachipirina e mio figlio il Nurofen, il tempo di fare effetto, la febbre scende, ma si presenta un forte mal di testa, a entrambi».

 

Il giorno successivo a Donatella tornano i sintomi in maniera più persistente, compaiono i dolori muscolari e il mal di gola, è Covid-19 di sicuro. È fine settimana e i medici di famiglia non lavorano. Sono irrintracciabili.

 

«Dopo tanti tentativi riesco a parlare con il medico che effettua la segnalazione all’Asl per ricevere il tampone, mi spiega l’iter da seguire: attendere la chiamata dalla stessa per un questionario – aggiunge – attendo e attendo ancora». Durante i giorni di attesa Donatella racconta che il suo stato di salute peggiora e inizia così la preoccupazione, «fremo di sentire il telefono squillare, ma ahimè nessuno chiama», afferma amareggiata. Nel frattempo viene a sapere della possibilità di fare il tampone andando direttamente in ospedale, ma in quei giorni di attesa, durante i quali l’Asl non chiama né per un tampone né per assicurarsi della sua condizione di salute, a Donatella compaiono altri sintomi come vomito e dissenteria e per lei diviene impossibile muoversi da casa.

«Il 16 ottobre appena sveglia decido di andare, ero terrorizzata di non riuscire a guidare per la debolezza. Arrivata a destinazione con largo anticipo, faccio il tampone e l’infermiera mi avvisa: per l’esito dovrà aspettare più del dovuto». I giorni diventano interminabili, ne trascorrono altri due, riceve la chiamata dell’Asl, ma non per l’esito, bensì perché il tampone ancora non è stato registrato. Trascorrono altri 5/6 giorni, arriva l’esito, attraverso una mail del medico di famiglia, positivo.

 

A questo punto, vuole capire cosa ne sarà del marito e del figlio, contatta l’Asl e la scuola. Ritardi su ritardi, attese su attese.

 

È il 3 novembre, afferma ironicamente: «Giorno fortunato! Come ogni mattina da ormai diverse settimane, chiamo l’Asl, dopo 10 minuti di attesa riesco a parlare con l’operatore, espongo la situazione, mi invita a attendere in linea perché dovrà consultarsi con un suo collega, avvenuto il consulto, mi comunica che farà un sollecito per il mio tampone e quando riceverò la chiamata dovrò segnalare la situazione dei miei familiari. Assurdo!». In conclusione, viene a sapere che sia il marito che il figlio non faranno il tampone, ma sono comunque vincolati dalla sua guarigione. Dopo giorni, si susseguono altri e diversi solleciti all’Asl per sapere come procedere. Le viene risposto che ci sono differenti possibilità e, qualora non dovessero chiamare per ripetere il tampone, dovrà calcolare 3 settimane dall’avvenuto tampone e calcolare sette giorni senza sintomi, solo così potrà considerarsi guarita, ma dovrà anche attendere certificazione di avvenuta guarigione, da parte della stessa Asl. Donatella è ancora in attesa.

 

controlli da parte della Protezione Civile (fonte: commons.wikimedia.org)

 

 

SIAMO IN CAMPANIA…

Francesca racconta che il 16 settembre, suo padre risulta positivo alla Covid-19. Soffrendo di lievi sintomi si reca al pronto soccorso e attende dalle due di pomeriggio fino alle 8 di sera circa per un tampone che finalmente viene eseguito, solo perché il personale è sollecitato da conoscenze del paziente. Inizialmente non volevano farlo. Segue la tac, con la quale viene evidenziato un inizio di polmonite, viene quindi ricoverato. Nessuno chiede i tracciamenti delle persone con cui è stato a contatto nelle 48 ore precedenti. Il 19 settembre, viene effettuato a casa il tampone a tutto il resto della famiglia e in seguito il tracciamento dei contatti della madre di Francesca, avendo scoperto due giorni dopo la sua positività. Francesca e la sorella risultano sempre negative. Le chiamate all’Asl non si contano, soprattutto quelle che non ricevono risposta.

 

Francesca tiene a sottolineare che il filo conduttore che ha permesso di ottenere tutti i tamponi dal primo all’ultimo è una “conoscenza”, un legame cioè con un medico all’interno dell’Usca, perché l’Asl aveva comunicato di non effettuare i tamponi a nessun membro della famiglia.

 

Ricordiamo che la madre risulta positiva. I tamponi vengono quindi effettuati e il motivo è chiaro, però i risultati non vengono comunicati. La mamma di Francesca ottiene il numero privato di uno dei medici Asl, inizia a contattarlo insistentemente, ma questa modalità dà scarsi risultati. Il secondo tampone è ancora positivo, ma lo scoprirà dopo giorni, perché nel weekend non si effettuano comunicazioni. A casa, cresce un clima di agitazione e rabbia. La mamma di Francesca è isolata. Nessuno chiama e si informa sulle sue condizioni di salute, se fossero buone o peggiorate, se avesse o meno sintomi importanti, ancora se avesse bisogno di farmaci. E tiene a sottolineare: «l’Asl della mia provincia ha persone incompetenti, non istruite, se chiamavi per dei chiarimenti nessuno ti rispondeva, squillava ma niente. La rara volta che riesci a metterti in contatto, non sanno rispondere alle domande o ai dubbi. Neanche loro sanno come comportarsi».

Aggiunge: «I tempi dei tamponi sarebbero stati infiniti, inizialmente non volevano neanche farli, nonostante mio marito positivo e ricoverato, i tempi sono stati a volte, anticipati, ma solo grazie a un contatto amico nel personale medico che ha preso a cuore la nostra situazione. Se avessimo dovuto aspettare i tempi dell’Asl, a quest’ora che siamo a metà novembre saremmo ancora chiuse in casa».

 

La rabbia di questa donna si confonde con l’amarezza per le figlie, risultate sempre negative, ma costrette alla quarantena, nonostante la decisione di dividersi in due appartamenti indipendenti.

 

Francesca ricorda: «Io e mia sorella pur essendo state sottoposte a tre tamponi negativi e infine a quattro con l’ultimo, che ci ha “liberate”, siamo state chiuse in casa per quarantena obbligatoria 30 giorni, esattamente dal 16 settembre al 16 ottobre, perché a contatto con nostra madre, nonostante avessimo chiarito che avevamo due appartamenti divisi e indipendenti e quindi non avessimo nella pratica contatto con la persona positiva. Hanno costretto me e mia sorella a stare chiuse in casa, senza darci la possibilità di lavorare o fare la spesa, provvedere ai beni essenziali per vivere. Abbiamo anche richiesto di fare privatamente l’ultimo tampone per velocizzare i loro tempi “biblici”, ma niente». Poi, aggiunge: «Chiedevamo all’Asl il perché, nessuno sapeva risponderci. Al massimo ci dicevano che il protocollo era questo, se fossimo uscite di casa avremmo trasgredito la legge, oppure, rispondevano a mia madre, che se non fosse stata d’accordo avrebbe potuto scrivere al ministro Speranza». Francesca conclude: «Viene da pensare che è quasi più triste questa trafila che addirittura per la Covid-19 in sé».

 

Valentina è positiva alla Covid-19 da un mese e nonostante il nuovo Dpcm del 12 ottobre 2020 affermi che, trascorsi i 21 giorni dalla positività, se non si riscontrino più sintomi, è possibile uscire dal momento che non si è più contagiosi, la sua Asl le comunica il contrario. Proprio così, dopo numerose chiamate in attesa, le rispondono dal centralino e le dicono: «Noi non ci assumiamo la responsabilità anche se la legge dice questo». Un unico stipendio, una famiglia composta da due membri, Valentina e la madre, quest’ultima è risultata sempre negativa. Intanto Valentina e la madre rimangono in quarantena. «Perché nessuno si assume questa responsabilità? Se una persona lavora a giornate come fa? Chi la riscuote? La risarcisce qualcuno?», affermano. Valentina avverte i primi sintomi il 6 ottobre, dopo due giorni fa il tampone. Dopo 4 sa di essere positiva. Passano giorni e giorni di silenzio.

 

La sua Asl “inciampa”, quando con una telefonata avvenuta dopo alcuni giorni dal momento in cui aveva eseguito un ulteriore tampone di controllo, chiedono a lei personalmente se sapesse di essere ancora positiva.

 

Valentina a quel punto, risponde: «Quindi sono risultata positiva anche a questo tampone?», poi, dice, «dall’altra parte della cornetta, il tizio confuso mi fa: ah, avete fatto anche il secondo? Allora prenotiamo il terzo». La conversazione finisce in mistero, Valentina non conosce l’esito del suo secondo tampone e al telefono il dipendente Asl non sa nulla a riguardo, ma è pronto a prenotargli il terzo. Valentina racconta che addirittura il suo nominativo viene perso, nel cosiddetto elenco tamponi, il suo nome non si trova. «Dov’è l’umanità e la cura del paziente? Siamo persone non numeri». Dovrà aspettare altri 10 giorni per effettuare l’ultimo tampone – così almeno le viene comunicato – e del nuovo dpcm a nessuno di questa Asl sembra importare.

 

 

 (fonte: commons.wikimedia.org)

 

 

SIAMO NEL LAZIO…

La storia di Maria è un po’ diversa, ma racconta ugualmente di una disavventura rispetto al sistema sanitario. Circa un mese fa suo figlio di 20 mesi, che è solito soffrire di otite, ha la febbre alta. Spaventata chiama la pediatra, quest’ultima si rifiuta di visitarlo prima di un tampone. Dice: «Precisamente mi viene riferito che non visita bambini con la febbre, dall’inizio della pandemia, perché loro negli studi medici non dispongono delle attrezzature di protezione di primo livello». Maria sottolinea che a Roma, così come sta accadendo in tutta Italia, per effettuare un tampone ci vogliono giorni e giorni, condizione pericolosa per un bimbo di soli 20 mesi con febbre alta a 39 e mezzo e la soluzione apparentemente più veloce è il tampone in drive in, cosa però impossibile per un bimbo di quell’età. In più ricorda che è la stessa pediatra a comunicarla dei contatti a cui chiamare per effettuare un tampone rapido, ma non ottiene riposte.

 

È costretta a portare il bambino al pronto soccorso pediatrico per effettuare il tampone, per fortuna negativo. Una situazione assurda, anche perché su un piano razionale, i medici sul territorio dovrebbero filtrare le richieste per evitare che afferiscano tutti in pronto soccorso.

 

«Noi non potevamo assolutamente aspettare come sta succedendo a chi pensa di aver contratto il virus, anche perché a noi non serviva il risultato del tampone, a noi importava che venisse visitato mio figlio. Ma in questa situazione ci siamo sentiti non tutelati e abbandonati, da colei che dovrebbe essere il nostro punto di riferimento per la salute dei bambini». La stessa pediatra, ora, si rifiuta di effettuare il vaccino antinfluenzale. «Posso capire che per paura della Covid-19 non visiti un bambino, ma non capisco perché a un bambino sano rifiuti di fare un vaccino antinfluenzale», conclude Maria.

 

A raccontare la storia di Tonino è suo cugino Antonio, un medico che però vive in un’altra regione. Tonino dopo aver contratto la Covid-19, trascorre due settimane a casa, i primi cinque giorni con febbre alta. Insieme alla moglie cerca di contattare il medico di base, il quale non solo si rifiuta di visitarlo ma delega tutto al 118, dicendo che lui non poteva fare nulla e non era suo il compito di gestire la situazione. Allarmato il 118 e giunto sul posto, viene messo in contatto telefonico con Antonio. Quest’ultimo segue la visita dall’altra parte della cornetta, e spiega che non gli viene fatto il cosiddetto “Walking Test” che si effettua per capire se la funzionalità respiratoria va sotto stress, confrontando la saturazione periferica in due momenti successivi e nel caso questa diminuisse occorre urgentemente optare per il ricovero ospedaliero. La dottoressa del 118 si limita a voler dare una diagnosi utilizzando un semplice fonendoscopio. Per capire se si tratta o meno di una polmonite interstiziale, c’è bisogno o di un “Emogas arterioso” o di una tac al polmone.

 

Antonio racconta: «Sotto la mia pressione, la collega inizia a scrivere dei farmaci sbagliando sia la posologia che i nomi. Nel frattempo la situazione degenera, Tonino inizia ad avvertire dispnea, difficoltà nella motricità, astenia e dolori muscolari».

 

A distanza di due giorni, è la moglie a recarsi direttamente all’Asl, dove trova il medico di base, il quale nuovamente si rifiuta di parlare con lei adducendo di essere impegnato. A quel punto si cerca di far attivare l’Usca, a cui doveva provvedere lo stesso medico di base, attraverso una pec all’Asl e avvisata l’Usca, questa sarebbe accorsa a casa del paziente. Addirittura è l’Asl in questione a comunicare dei numeri verdi alla moglie, a cui telefonare. L’Usca per Tonino non viene mai attivata. A causa di questi ritardi, la condizione di salute di Tonino degenera ulteriormente, viene richiamato il 118. Anche in questo caso, il medico pretende di usare unicamente il fonendoscopio. Sollecitato telefonicamente da Antonio, il paziente viene sottoposto al famoso test, si convincono a ricoverarlo. In ospedale la diagnosi è: polmonite interstiziale. Viene intubato. Oggi Tonino combatte tra la vita e la morte.

 

Triage all’ospedale di Verona (foto di Adert da commons.wikimedia.org)

 

 

E IN TUTTA ITALIA?

Ma su uno sfondo nazionale, che ha visto e vede tuttora l’impegno costante di medici in prima linea che mettono ogni energia fino allo stremo nel cercare di tappare la situazione di emergenza, di chi è la colpa? Esiste un responsabile? Silvia Perossini è un medico dell’Usca (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) di Piombino, secondo lei, il problema che si sta sviluppando è legato al fatto che, il Dipartimento di Igiene e Salute Pubblica (Asl), il quale ha il compito di gestire i contatti, i tracciamenti, le persone positive o quelle per esempio sottoposte a quarantena fiduciaria, è piena di lavoro. Dice: «Non giustifico, ma spiego, nel nostro caso non rispondono a telefono, quindi la gente che vuole sapere della sua situazione, sapere dopo quando può uscire di casa o altro, chiama costantemente; loro però non hanno la disponibilità di numeri né quella di gestire tutte queste chiamate e quindi quelle in entrata capita che non le prendano». Aggiunge: «Ciò determina un ulteriore problema perché a quel punto chiamano noi, che non possiamo dare indicazioni del genere».

Silvia da medico ma nello stesso tempo da cittadina riconosce che, in questo modo, molti pazienti si sentano abbandonati ed esclama: «Se dall’altra parte per motivi gestionali manca un servizio adibito anche solo a darti informazioni, diventa stressante. Per esempio i tamponi di guarigione non li gestisce l’Usca e, finché l’Asl non è stata sommersa di lavoro, veniva fatto un monitoraggio anche di persone lievi o asintomatiche». Non tutti sanno che a mantenere i rapporti Asl/paziente deve essere il medico di base (ovvero il “medico di famiglia”). Lo stesso che dovrebbe prendere in carico le prime cure di un paziente domiciliato Covid-19.

 

Allora perché le Asl, come quelle delle nostre testimonianze, non lo comunicano alle persone che probabilmente non essendone a conoscenza, stressano loro di continue chiamate?

 

«Siccome vengono prese, spesso, persone da altri reparti o da altri distretti e vengono messi come forza lavoro o in altri casi si tratta di neoassunti con i bandi Covid-19, purtroppo non tutti sanno cosa c’è da sapere. È sicuramente una falla del sistema». A questo proposito, ci racconta una sua esperienza: «Mi chiama un paziente che seguivamo, dicendo del nuovo Dpcm del 12 ottobre e io non sapevo nulla del fatto che lui potesse uscire dalla quarantena. Impegnata 24 ore su 24 al lavoro non ero andata ancora leggerlo, forse colpa mia, anche perché come già detto noi non gestiamo i tamponi di guarigione, ma mi aspetto a quel punto che ce lo comunichi l’ufficio igiene. Insomma, siamo troppo pochi e sempre sovraccarichi di mansioni».

Non si sta facendo una guerra alle Asl, anche perché il nostro Sistema Sanitario Nazionale in base al “principio di sussidiarietà” costituzionale è articolato secondo diversi livelli di responsabilità e di governo. Esiste, cioè, un Livello Centrale, ovvero lo Stato che ha la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute mediante un forte sistema di garanzie, attraverso i Livelli essenziali di assistenza; e un Livello Regionale, per cui le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione di servizi e di attività destinate alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento delle Aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere. Occorre dunque capire come siamo stati travolti da una situazione di collasso generale, da dove nasca questa “disorganizzazione” attuale nelle Asl in primo luogo, e questo timore generalizzato, comprensivo ma non giustificabile, dei medici curanti.

 

Pertanto la psicologa e psicoterapeuta, Maria Grazia Flore spiega quanto sia giusto evidenziare gli aspetti psicologici che stanno alla base della relazione medico/paziente, i quali non ruotano soltanto intorno al sintomo ma alla persona.

 

La persona che porta tutti i suoi vissuti emotivi, psicologici e sociali. E risulta importante anche da un punto di vista di adesione del paziente alla terapia proposta dal medico. «Se tutto questo viene a mancare, viene a mancare quel senso di contenimento che il medico da al paziente in difficoltà, perché non si occupa solo di fare diagnosi e dare cure, ma di contenere gli aspetti emotivi legati alla malattia o alla paura della stessa, il paziente così, si sente abbandonato».

 

C’è da considerare che la sicurezza, lo dice anche Maslow nella sua “piramide dei bisogni”, è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo, quindi se la salute è precaria come accade ora, e si vive un costante senso di pericolo, ci sentiamo tutti più fragili, vulnerabili come se il pericolo stesse sempre dietro l’angolo. Anche perché, non sappiamo se il virus ci colpirà e, se sì, in che modo, o come potrà colpire i nostri cari, sentiamo di fatto un’assenza di sicurezza incrementata dall’assenza dei medici del personale sanitario che, invece di sostenere, in alcuni casi voltano le spalle.

La dottoressa Flore però, tiene a precisare che dal canto loro i medici stanno provando un vissuto di angoscia, la stessa paura del contagio; noi non dobbiamo pensarli come degli eroi. Sicuramente, per questo motivo, si è scatenata una rivolta in riferimento alla proposta di fare i tamponi negli studi dei medici di base. «Da cittadina fa rabbia perché non ci si sente tutelati, ma da medico si capisce che ci siano aspetti emotivi che non coinvolgono solo noi», termina.

 

Il costante senso di pericolo ha portato numerose persone a confrontarsi sui social, a cercare aiuto su uno schermo, ad aggrapparsi con le proprie speranze a nomi e volti sconosciuti.

 

Su Facebook sono nati diversi gruppi di confronto, tra questo quello creato dall’avvocato Erich Grimaldi, #TERAPIADOMICILIARECOVID19 in ogni Regione. Un gruppo che nasce a marzo e che inizialmente si popola di cittadini del nord d’Italia, che, nei primi mesi di pandemia, sono i più colpiti. L’avvocato afferma: «Si navigava nel buio nessuno sapeva cosa fare e che farmaci prescrivere – aggiunge – poiché la gestione della sanità è regionale, i medici del territorio tra di loro non dialogano, quindi penso sia opportuno trovare un modo, se non ci pensa lo stato. Creo il gruppo e confluiscono in 3 giorni circa 10/15 mila membri, fra cui molti medici».

Inizialmente, la maggioranza dei medici che si iscrivono al gruppo provengono dal gruppo dei 100mila medici che avevano chiesto il protocollo univoco allo stato per le cure domiciliari. «Io, ad aprile, ho esposto questa richiesta di protocollo univoco allo stato per le cure domiciliari in tutte le regioni senza discriminazioni, anche inviando una diffida al governo che non è stata mai riscontrata. Dopodiché ho iniziato a fare una serie di dirette live e con queste collegavo i medici di tutta Italia affinché ci fosse un confronto sulle cure tempestive».

Prosegue Grimaldi: «Il gruppo, nella prima fase della pandemia, registra pazienti che non venivano assistiti in modo adeguato dai medici di base, o perché erano pieni di lavoro o perché non rispondevano o per altro. Con la seconda ondata più aggressiva è diventato un supporto per tutti gli iscritti positivi alla Covid-19 di tutte le regioni».

 

Si instaura un rapporto legale gratuito affiancato a quello medico per ogni paziente che ne avesse bisogno. Si lavora intensamente, giorno e notte, le richieste sono immense, i post a scopo di denuncia e aiuto, infiniti.

 

Lo studio legale dell’avvocato è sempre stato a disposizione dei pazienti Covid, creando un servizio, “Servizio paziente Covid primi sintomi”, quando un paziente non viene assistito, scrive a questo servizio, di conseguenza viene fatta una diffida o una pec all’Asl, all’Usca, alla regione, o ancora all’Autorità dei Diritti, al Dipartimento di Prevenzione, allo stesso medico di famiglia, affinché si possa avere un’assistenza immediata, sia per il tampone che per quanto riguarda le visite domiciliari.

 

A tal proposito l’avvocato aggiunge: «Da qualche giorno sono costretto a intervenire anche su ricoveri ospedalieri, è arrivata richiesta da un ospedale di Giugliano poiché serviva la terapia intensiva per un malato e, benché la regione dica che ci siano posti, posti non sembrano essercene. Ancora ieri ho aiutato un paziente che non aveva assistenza adeguata in termini di farmaci, facendo la pec, è intervenuto il primario». Molto spesso, le Asl interessate a cui si provvede a inviare pec, per sollecitare, rispondono dopo 10/ 15 giorni, in casi che oramai e fortunatamente i pazienti si sono negativizzati, senza alcun sostegno dell’Usca, perché nel frattempo si è intervenuti con i medici presenti nel gruppo.

L’avvocato, inoltre, afferma: «Ho fondato un Comitato di Scopo per la Cura tempestiva domiciliare nell’epidemia di Covid-19 con Valentina Pirani collega di Roma, stiamo aspettando la costruzione definitiva del sito così che le adesioni vengano fatte attraverso un sistema online, il Comitato mi servirà anche per sentire la voce dei malati e degli stessi medici nei confronti delle istituzioni».

 

La sanità presente nel gruppo è quella presente in gran parte d’Italia, soprattutto è quella di cui vorremmo sentir parlare ogni giorno. È la prova di una falla del sistema, di cui anche i medici ne risultano vittime insieme ai pazienti.

 

Non si tratta di complotto o di negazione del virus, si tratta di incapacità organizzativa perché in otto mesi nessuno di dovere ha fatto nulla per rafforzare la medicina territoriale. «Se avessero inviato a casa di ogni famiglia italiana già un saturimetro avrebbero fatto una grandissima cosa. Se oggi sapete che il protocollo prevede determinati farmaci, inviateli a casa di queste persone e dite che la scatola si può usare solo, previo consulto del medico di famiglia. Avrebbero potuto aggiornare i medici di famiglia con dei corsi, per capire come poteva essere aggredita in fase precoce la malattia, ancora avrebbero dovuto aumentare le Usca, se le avessero aumentate rafforzando i territori, probabilmente gli ospedali non sarebbero arrivati al collasso», denuncia l’avvocato, aggiungendo che «alcuni medici di base mi scrivono dicendo se posso metterli in contatto con i medici del gruppo, per avere una sorta di protocollo».

«Credo che eticamente tutti dobbiamo passarci una mano sulla coscienza e dirci che è un momento di emergenza, per questo collaboriamo tutti. La sconfitta del virus avviene anche se non soprattutto sui territori, ma si è sempre solo parlato di ospedali. Hanno creato un clima di terrore anche per chi doveva solo prepararsi a una cura domiciliare», termina l’avvocato Grimaldi. In una lotta alla caccia del capro espiatorio, c’è chi subisce, chi soffre, chi è spaventato, chi aiuta e chi abbandona. Siamo tutti uguali, siamo tutti umani.

(Dinamopress)

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