23 Dicembre, 2024
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Il terremoto 40 anni dopo. La scossa da 1 minuto e 20 che cambiò l’Irpinia e il Paese

Il 23 novembre 1980 il disastro: 2.914 morti, 8.848 feriti, 280mila sfollati. L’ira di Sandro Pertini, la visita di Giovanni Paolo II. La ricostruzione tra generosità e criminalità

Quarant’anni fa, 23 novembre, ore 19.36, domenica. Una scossa lunga l’eternità di un minuto e venti secondi: 2.914 morti, 8.848 feriti, 280mila sfollati, sei paesi interamente rasi al suolo, altre decine gravemente danneggiati, 77mila case distrutte. Sono i numeri del terremoto di Campania e Basilicata – la più grave catastrofe dei tempi moderni in tutto il Mezzogiorno d’Italia, dopo il sisma di Messina, all’inizio del Novecento.

Sono diventati i numeri, oggi più che mai, di una tragedia antica, quasi di un altro mondo, e – certo – di un altro tempo, quello della pandemia, che non ha bisogno di smuovere pietre e accatastare rovine per intestarsi a proprio nome una grande sequela di lutti e, insieme, l’imposizione di un cambio di scena, nella vita quotidiana e nella cultura corrente, come mai s’era visto in passato. Anche nel ricordo di quei terribili attimi, il Covid, oggi, sembra accampare insondabili diritti: non può certo offuscarne la memoria, ma distorcerla forse sì, respingendola ancora di più nelle retrovie di una storia selettiva finanche nella schiera dei drammi che inevitabilmente produce.

Più di ogni altro, in un territorio nel quale più che eventi i sismi sono ricorrenze, il terremoto dell’Ottanta, a distanza di quattro decenni, si pone come lo spartiacque tra tragedie vecchie e nuove, quasi tra l’antico e il moderno, se si pensa al divario e alla diversità delle “armi di offesa”, la pietra scossa dalla collera della terra, e un microorganismo invisibile e subdolo, allevato nella cattività di una provetta. Velato dall’alone di mistero che ogni pandemia porta con sé – e questa più di ogni altra – anche il ricordo di una catastrofe che ha cambiato la storia di un’area non piccola del meridione d’Italia, ha bisogno di farsi largo, quasi di cercare un proprio diritto al ricordo.

Perché è vero che di quel meridione non esistono quasi più tracce, le ultime spazzate via proprio dal sussulto forte, quasi un rantolo da estremo respiro, di un lembo di terra, che solo di quel modo sembrava disporre, per segnalare al resto del mondo – ma anche alle aree urbane che, non lontano, si sviluppavano a valle – che i paesi dell’osso non erano un’invenzione letteraria uscita dalla penna di Guido Dorso, il grande meridionalista irpino. Si trattava, invece, della catena di abbandono che stringeva in una morsa il tratto appenninico più nascosto e dimenticato, quello della dorsale campano-lucano, segnato da nomi – Conza, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Teora, Laviano, Balvano, e altri posti – a stento segnalati sulle carte geografiche. Paesi appartati tra le quinte di paesaggi aspri, modellati dalla fatica e dalla lotta dell’uomo per la terra, più che dai profili austeri delle cime dei monti affacciate su valli che non si perdono mai lontano, come tenute a vista nel timore che aprano spazi fin troppo dilatati.

Anche per questo i soccorsi, quel giorno, ebbero il passo lento; nessuno conosceva quei luoghi, e tantomeno le strade per arrivarci. I ritardi furono anzi lo scandalo di una catastrofe che, in una manciata di secondi, aveva fatto scempio di una sorta di territorio di nessuno, tenuto al riparo dai circuiti della modernità e del progresso.

«Fate presto» fu il grido d’ira di Sandro Pertini, il presidente di un Paese scosso, che appena quattro anni dopo il disastro del Friuli, prendeva atto che la fragilità del territorio sul quale viveva, lo condannava a una difficile e pericolosa convivenza.

A Balvano, un minuscolo centro del Potentino, in fondo a una gola di monti, gli attoniti abitanti del posto, accanto alle loro case tutte in piedi, senza l’ombra di macerie intorno,

videro passare il Papa, Giovanni Paolo II, che si dirigeva a piedi verso la piazza – l’unica – del paese, dove tutta la tragedia era racchiusa, come un cratere nel cratere:

il campanile della chiesa a fianco, e a terra, l’unico e solo ammasso di macerie. Era crollato il campanile: 77 morti, tutti nel tempio, la maggioranza, 66 di loro, ragazzi e ragazze del coro, che cantavano alla Messa, raccolti nei banchi della navata di destra. Gli altri banchi, quella della scuola, non si sa come furono portati in piazza; e su uno di essi, rivestito di formica verde, il Papa, afferrando un lembo della sua veste bianca, salì con un balzo agile e vigoroso, senza l’aiuto di nessuno. Fu la sua cattedra per un’umile e grandiosa lezione sulla sofferenza. «Di fronte a tutto questo, non riusciamo più a pregare» facendosi coraggio, prese la parola una giovane tra la piccola folla. «La vostra sofferenza è già preghiera» rispose il Papa che, poco prima, era stato in visita tra i feriti all’ospedale di Potenza.

Quel grido sui ritardi nei soccorsi, con le immagini in bianco e nero di chi, a mani nude, scavando nelle macerie, dopo giorni, era ancora in cerca di tracce di vita,

non restò, una volta tanto, inascoltato. Fu anzi l’onda lunga che tenne in vita, e segnò a fondo la tragedia del terremoto dell’Ottanta. Si cominciò a parlare di strutture di difesa permanente e prendeva forma il primo modello della Protezione Civile, poi affinato di volta in volta, nella lunga sequela di sciagure che hanno continuato a colpire il Paese.

Terremoti ma non solo. Tutta l’Italia mobilitata, le strade che i soccorsi stentarono a trovare, furono poi invase, come per un risarcimento tardivo, da un esercito di 50mila unità militari impegnate nei soccorsi. Furono creati in poco tempo 110mila posti letto e la distesa a schiera di oltre trentamila roulotte, trasformò tutta quella vastissima area in una enorme tendopoli a cielo aperto e a paesaggio via via variabile con l’arrivo dei container e dei primi prefabbricati leggeri.

Nei paesi dell’osso si faceva viva, in quei terribili giorni, la carne di una solidarietà al culmine di una straordinaria mobilitazione. Nessuno sembrava potersi tirare indietro di fronte a una tragedia che segnava un punto di svolta non solo nel Mezzogiorno, ma in tutto il Paese.

Lo Stato assente dei decenni passati, cambiò totalmente registro: confermata sul campo, dopo la positiva esperienza del Friuli la struttura portante del Commissariato, guidata da Giuseppe Zamberletti,

padre e precursore della moderna Protezione civile, non badò a spese nel finanziare una ricostruzione che necessariamente implicava anche una fase di sviluppo. I fondi stanziati furono enormi: 30 miliardi di lire subito e a distanza altri 25 distribuiti in un’area che, nel frattempo, si era allargata ben oltre i paesi del cratere. Furono dichiarati genericamente terremotati 687 Comuni, secondo le diverse classificazioni di centri disastrati, gravemente danneggiati o semplicemente danneggiati.

L’Italia riparava così, i suoi ritardi mettendo in atto una sorta di “Recovery fund” ante litteram. Non mancarono, nella scia dei grandi investimenti, esperienze positive intorno alle quali si consolidarono le speranze di una svolta nella fragile economia delle zone interne. Ma non mancò neppure la presa della camorra e di un affarismo senza scrupoli che sviò a proprio vantaggio, il corso di uno sviluppo virtuoso.

Anche allargare a dismisura l’area del cratere si rivelò un modo per disperdere le risorse complessive.

La legge sulla ricostruzione, la 219, finì per avere le maglie larghe e, più che sulle esigenze delle singole famiglie rimaste senza alloggi, si concentrò sulla edificazione di grandi agglomerati nelle periferie urbane. Avvenne per questa strada la nascita di una serie di villaggi del degrado che hanno via via segnato le condizioni di vita a Scampia, Ponticelli, Miano, e lo stesso Parco Verde di Caivano. Senza contare il rione Salicelle ad Afragola e Monteruscello a Pozzuoli.

Una sorta di “terremoto sociale” esportato altrove dalle distorsioni di una ricostruzione a cui non mancarono i fondi, ma – e in maniera clamorosa – progetti e obiettivi. È anche da questo versante che il terremoto dell’Ottanta continua a parlare all’oggi. Al tempo non meno drammatico della pandemia.

(Avvenire)

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