Tutte le misure-tampone finora assunte hanno il fiato corto e rendono insostenibile il debito pubblico senza riavviare la produzione.
Le velleità di un rilancio neoliberale si scontrano dunque con condizioni internazionali e locali, mentre l’emergenza sanitaria, che finora ha dilazionato le proteste, durerà meno dei suoi effetti economici disastrosi
Un po’ d’acqua (sporca) è passata sotto i ponti da quando abbiamo denunciato l’esistenza di un ciclo reazionario che aveva investito Usa ed Europa. Alcuni grumi escrementizi si stanno sciogliendo – Trump e Salvini – ma cominciano a ripassare relitti marciti, da Blair a Renzi e Berlusconi – e, per dirla in termini politologici neutri, la corrente neoliberale sta rimpiazzando la schiuma del populismo di destra che la “terza via” si era meritatamente tirata addosso, in assenza o quasi di un’opposizione da sinistra.
Con Joe Biden, il sonnacchioso, e Kamala Harris, l’iperattiva, sono tornati alla ribalta alcuni strateghi dell’era Clinton e Obama che forse non sono in grado di smantellare il trumpismo di base e ripetono schemi poco rassicuranti di politica estera – la giusta euforia per la caduta grottesca del pagliaccio dal ciuffo ex-arancione non ci deve far sottovalutare il fatto che questa presidenza in arrivo guarda al centro e non certo a sinistra e il “centro” in termini Usa è una macchina imperiale aggressiva, non lo status quo borghese. Anche l’infame e purtroppo vittoriosa campagna anti-Corbyn dei blairitesinglesi a guida Starmer va nella stessa direzione, in attesa della caduta del trumpiano Bo-Jo.
Il rumoroso rilancio della “terza via”, celebrata dal sommo pontefice Giddens e rimbalzata da un editoriale didattico di Molinari su “Repubblica” sulla nuova linea progressista Biden-Starmer è orpello mediatico e una marchetta pro-Renzi, ma il sigillo politico in Italia lo ha posto l’immarcescibile Silvio Berlusconi, trainando tutto il centro-destra allo sbando al voto positivo sullo spostamento di bilancio (e strappando, di passaggio, la leadership dello schieramento dalle mani tremanti di Salvini e vogliose di Meloni).
Operazione “facile”, non convenendo a nessuno far saltare la possibilità di erogare i famosi “ristori” e giocando furbescamente Meloni e Salvini sull’astensione – il perfetto assist per consentire al Cav di dire: allora votiamo sì, spiazzandoli e mettendoli in mutande.
Operazione, inoltre, concordata con il Pd, che in tal modo spinge all’angolo i confusi e non più indispensabili 5 Stelle, sulla base di una spartizione dei futuribili fondi della New Generation Eu tutta a favore delle imprese, dei lavoratori autonomi e degli sgravi fiscali (da sommarsi all’evasione del settore), a scapito dei lavoratori dipendenti, le cui tasse non sono alleviate e cui si negano nuovi contratti o aumenti significativi di salario, secondo le indicazioni della Confindustria bonomiana. E questo in un Paese dove – nel 2017 e con Covid-19 le cose non sono certo migliorate – la quota del Pil spettante ai lavoratori (dipendenti e indipendenti) era del 47% e il rimanente 53% andava a profitti, interessi, royalties, rendite, mentre invece le imposte sui redditi da lavoro generano un gettito pari a circa il 18% del Pil e il gruppo di imposte sugli altri proventi si ferma al 6%. Dove quindi chi vive di lavoro produce ed è tartassato senza possibilità di evasione, mentre gli altri percettori di reddito versano molto meno e, per di più, possono evadere alla grande.
La “tregua fiscale”, che è la ciccia dell’accordo fra Zingaretti e Berlusconi con il flebile consenso di Di Maio, salva il governo al Senato ma è una gigantesca ingiustizia sociale e un chiaro indizio di svolta a destra e di reaganismo da poracci. Con notevole faccia tosta il Cav ha definito “non garantiti” imprenditori, commercianti e autonomi, appropriandosi di un nome e di un contenuto che spetterebbe in primo luogo ai lavoratori dipendenti sull’orlo del licenziamento o dell’area informale – se qualcuno li difendesse e rappresentasse. Lo stesso vale per un buon numero di lavoratori dei servizi che, malgrado l’inquadramento formale fra gli “autonomi” titolari di partita Iva, non sono stati affatto garantiti, anzi esclusi da qualsiasi ristoro perché non titolari di attività commerciali.
Se si “ristora” e si defiscalizza chi già è privilegiato, agli altri resteranno le briciole. A questo serve lo scostamento di bilancio – oltre a tappare le falle più vistose – e Berlusconi, oltre a incassare l’emendamento pro-Mediaset, l’ha capito al volo, a differenza dei suoi idioti colleghi di “federazione”. Dubito invece che a “sinistra” ci si sia resi conto dei danni inferti alla propria base elettorale. La stessa necessità di ricorrere al soccorso della destra moderata per raggiungere la maggioranza assoluta dei parlamentari per lo scostamento di bilancio deriva dalla sciagurata revisione anti-keynesiana dell’art. 181 della Costituzione sul pareggio di bilancio, voluta nel 2013 dal Pd nella sua fase più acuta neoliberale e che potrebbe tornare utile con l’attuale ritorno di fiamma neolib, quando si tratterà di gestire l’immenso debito accumulatosi nel frattempo e di negoziarlo in Europa.
La manovra italiana è di corto respiro e forse non servirà neppure a superare gli scogli su cui minaccia di naufragare nei prossimi giorni il governo Conte, in primo luogo la controversia sulla riforma e utilizzo del Mes e le citate prospettive del debito pubblico.
Va da sé che un rimpasto di governo o addirittura il subentro di Draghi a Conte segnerebbe un’ulteriore accelerazione della deriva a destra (berlusconiana neoliberale, non melo-salviniana populista). Ma soprattutto non risolverebbe i problemi di fondo come non sembrano risolutive le strategie a livello europeo di Macron e di Merkel – e non parliamo del disastro dell’Inghilterra brexitiana.
Prendiamola alla lontana. Credo che ancora non siamo in grado di valutare la durata e l’ampiezza degli effetti della pandemia. Sappiamo che ha accresciuto le diseguaglianze di reddito, di classe, di razza e di genere. Sappiamo che ha sconvolto la rete dei flussi produttivi e distributivi costringendoli a una ristrutturazione non indolore. Prevediamo che alteri, secondo la diversa incidenza territoriale e le capacità nazionali di controllo, gli equilibri fra stati e continenti – non certo a favore di Usa ed Europa. È probabile che abbia limato l’importanza di molte città globali – da New York a Londra e Milano – parzialmente svuotate, a causa dello smart working, delle concentrazioni impiegatizie e manageriali e del relativo indotto. Ha accorciato le catene logistiche, spazzando via una quota consistente del lavoro informale e semi-legale che vi si incrostava e al momento non immaginiamo sostituzioni. In generale, sembra che alcune di queste tendenze non siano reversibili e mettano in eccedenza una vasta sezione della popolazione mondiale che stava arrampicandosi fuori dalla povertà nell’ambito del processo di globalizzazione.
Se restringiamo il fuoco all’Italia non si può non vedere la povertà che si diffonde rapidamente e trova i suoi indici più immediati nell’accesso alle mense caritatevoli e ad altre forme di soccorso alimentare, ma che si può scomporre nel blocco della nuova occupazione, nell’espulsione dei giovani e delle donne dall’impiego, in un ricorso alla cassa integrazione cui non seguirà nella maggior parte dei casi un vero ritorno al pieno lavoro, nei licenziamenti – malgrado il blocco, che comunque scadrà il 31 marzo 2021 lasciando su terreno, secondo le stime magari terroristiche della Confindustria, 250.000 operai. Neppure il blocco degli sfratti durerà all’infinito e saranno decine di migliaia di inquilini gettati sul lastrico.
Tutte le misure-tampone finora assunte hanno il fiato corto e rendono insostenibile il debito pubblico senza riavviare la produzione. Le velleità di un rilancio neoliberale si scontrano dunque con condizioni internazionali e locali pochissimo propizie e l’emergenza sanitaria, che finora ha anestetizzato o dilazionato una quota di protesta, non durerà a tempo indeterminato, o almeno durerà meno dei suoi effetti economici disastrosi.
Per di più, anche in una logica di sopravvivenza capitalistica (non è detto che regga, ma per ora tale è il contesto) e di ristrutturazione del debito pubblico italiano ed europeo, sembrano indispensabili una redistribuzione permanente e progressiva del prelievo fiscale e lo sfoltimento della giungla delle esenzioni, per un verso, una qualche imposizione straordinaria sui redditi più elevati per l’altro. Sia la patrimoniale o la tassazione sulla prima casa o un prelievo egualitario sui redditi da lavoro e sulle rendite finanziarie e i profitti (da cui siamo lontanissimi), qualcosa va fatto per convincere chi può a prestarci i soldi – mica sto parlando di giustizia o equità sociale.
E penso che il fabbisogno finanziario salirà ancora se si vorrà fronteggiare una disoccupazione in buona parte irreversibile con un sistema di reddito universale incondizionato alternativo alla morte per fame.
Percorrendo qualsiasi strada con le saracinesche abbassate tocchiamo con mano tanto la caduta dei consumi superflui, che è il primo effetto dell’impoverimento relativo, quando l’assurdità di un sistema distributivo ancorato all’offerta turistica, all’abbigliamento trash e alla ristorazione mordi-e-fuggi degli intervalli lavorativi e degli apericena. Molte di quelle cose non torneranno più, altre resteranno sospese per anni. E in quelle strada aumenteranno mendicanti e homeless, indigeni e immigrati. Gli scenari di Ballard ci sembreranno arcadici al confronto.
Insomma, le misure che si imporranno per mantenere un mercato interno alla produzione e imbrigliare lo scontento sociale non corrispondono affatto alle velleità neoliberali che stanno riaffiorando nel ceto politico e neppure alle resipiscenze neokeynesiane che non si concretizzano neanche sul terreno drammatico della sanità. Lo stallo politico che ne consegue – e di cui è esemplare l’urgenza di cambiare un governo decotto senza arrischiarsi a nuove elezioni che brucerebbero proprio alcuni dei sovradimensionati membri della maggioranza e della soccorrevole Fi – corrisponde alla totale mancanza di un progetto di uscita dalla crisi e di rinnovata coesione sociale, sia pure nei limiti dell’attuale regime di produzione.
Vero che ci troviamo nel mezzo di una pandemia da Covid-19 di cui si stentano a vedere l’uscita e le conseguenze (e che forse è solo la prima di una serie e per di più nel contesto di un incalzante collasso ecologico), vero che la cancelliera Merkel, la più saggia della compagnia, ha le sue difficoltà e Biden non sta annunciando l’aurora, ma noi italiani siamo messi peggio di tutti e solo una ripresa del conflitto sociale può salvarci.
(Dinamopress)