Lo storico turco Taner Akçam prova l’autenticità dei telegrammi con i quali Talat Pasha organizzò la sistematica e feroce soppressione del “millet” cristiano
“Le prove sperdute dello sterminio”, così il New York Times definisce i documenti decifrati e pubblicati da Taner Akçam, storico turco che ha pagato anche con la reclusione le sue ricerche sulla strage dei cristiani tra 1915 e 1922, in Killing Orders. I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno. La versione italiana, pubblicata da Guerini e Associati (pagine 312, euro 25,00), è curata da Antonia Arslan, della quale pubblichiamo qui la prefazione.
Ho conosciuto Taner parecchi anni fa, a St. Paul, in Minnesota. Avevo sentito parlare di lui come di un uomo coraggioso, uno studioso turco che aveva sfidato il suo governo sul tema del Genocidio Armeno, era stato in prigione ed era riuscito a evadere, e ora insegnava a Minneapolis, la città gemella aldilà del Mississippi. Ero curiosa ed emozionata di poterlo conoscere. Ci incontrammo durante un piccolo convegno sull’Armenia organizzato da una bravissima collega proprio a St. Paul: e subito mi affascinò il suo aspetto di gentiluomo orientale, così somigliante ai miei zii di Aleppo e Damasco, con la stessa aria di bonomia sorridente e perbene, un vestire dignitoso e belle cravatte.
Piccoletto di statura, affabile e garbato, ma con un cuore da leone e un’anima d’acciaio: tempra che ha dimostrato in tutti questi anni, sopportando con serena ironia le continue malevole attenzioni del governo turco e riuscendo a portare a termine quest’ultima opera, che lui stesso ha definito, parlando con me mentre mi scriveva una dedica sul suo libro appena uscito negli Stati Uniti, la pistola fumante degli studi sul Genocidio Armeno.
È questo un lavoro meticoloso e accuratissimo, che ha affrontato e risolto il problema di un gruppo di documenti fra i più discussi nell’immensa mole di materiali fino a oggi pubblicati sulla tragedia del 1915-1922, e cioè i famosi telegrammi di Talat Pasha e di alcuni alti esponenti dell’amministrazione ottomana che il funzionario turco Naim Efendi vendette alla fine della guerra ad Aram Andonian, uno dei pochissimi intellettuali armeni che era sopravvissuto, grazie a una serie di fortunate circostanze. Naim Efendi aveva anche scritto brevi note per accompagnare e spiegare i documenti, che più tardi Andonian – pubblicandoli – avrebbe chiamato “Memorie di Naim Bey”.
Il governo di Turchia, impegnato da subito in un’operazione di negazionismo a tutto campo, riuscì col tempo, con un paziente lavoro di disinformazione, a screditare questi testi particolarmente scottanti, sicché fino a oggi anche gli storici più favorevoli alla causa armena evitavano di occuparsene. Ma – come scrive Akçam con molta ironia – «la verità ha la cattiva abitudine di venir fuori, alla fine»: e questo suo libro è basato sull’eccezionale scoperta di un importantissimo archivio, ricco di prove che convalidano e sostengono l’autenticità dei materiali forniti da Andonian. Si tratta di una massa di documentazione raccolta dal sacerdote cattolico padre Krikor Guerguerian, con l’intenzione di servirsene per un dottorato sul Genocidio Armeno. Egli non arrivò mai a completarlo, ma riuscì a costituire un imponente archivio, che è stato messo a disposizione del professor Akçam dal nipote Edmund Guerguerian nel 2015 (e oggi è tutto online, aperto agli studiosi).
Nei primi due capitoli – costruiti con precisione chirurgica e con un inesorabile acume da detective – Akçam accompagna il lettore, passo dopo passo, nella puntuale dimostrazione dell’assoluta veridicità dei telegrammi, attraverso la verifica accuratissima delle modalità di cifratura e una serie di controlli incrociati sui linguaggi usati, sulle firme dei mittenti e perfino sul tipo di carta impiegata. La sua analisi attenta e completa affronta la complessità di queste preziose carte con intelligente e meticolosa acribia: e a me sembrava di vederlo in azione, con la lente di Sherlock Holmes in mano e la saggia pazienza orientale dello studioso che sta seguendo un complicato filo d’Arianna e deve stare attentissimo a non spezzarlo.
Tutte queste verifiche approdano alla scoperta che – grazie anche ai nuovi materiali che integrano clamorosamente quelli già conosciuti – i telegrammi sono tutti veri: costituiscono appunto la pistola fumante, la prova indiscussa delle intenzioni genocidarie del vertice dei Giovani Turchi, e – in particolare – dell’accanimento organizzato nello sterminio di Talat Pasha e dei collaboratori da lui scelti.
Nel terzo capitolo, gli eventi e i personaggi menzionati da Naim Efendi vengono messi a confronto con documenti ottomani contemporanei, verificandone la veridicità e organizzandoli in un discorso coerente, che il lettore segue con passione e un senso di angoscioso stupore. Infine, le numerose appendici (i testi dei telegrammi e delle note di Naim Efendi e lettere estremamente significative finora sconosciute) portano altra legna al fuoco dell’indignazione e dello sgomento: ma quando arriva alla fine, oltre all’ammirazione per la sovrumana pazienza dello studioso–detective, anche l’onesto lettore si sente quasi un eroe, come se anche lui fosse partecipe di questa tardiva ma scintillante vittoria della verità.
(Avvenire)