L’aumento delle temperature nei prossimi anni può penalizzare il Pil dei territori più esposti e far crescere le disuguaglianze. La leva fiscale per una svolta ecologica
Ritorno al passato: l’Italia del futuro rischia un balzo indietro di 60 anni. A quando, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso il valore del Pil pro-capite di un sardo o un calabrese valeva circa la metà di quello di un piemontese o un lombardo. Dopo la decade degli anni Cinquanta, si tratta del divario di ricchezza tra Meridione e Settentrione più ampio mai registrato dall’unità d’Italia a oggi. Ed è quello che potrebbe accadere nuovamente nel 2080, tra altri 60 anni. Non a causa degli effetti pandemici, ma per i cambiamenti climatici, che avranno una serie conseguenze socioeconomiche.
Italia, 2020: oggi si stima un aumento della temperatura nazionale fino a +2°C tra il 2021 e il 2050 rispetto al periodo 1981-2010. Con punte di quasi 5°C in più a fine secolo nella zona alpina e durante la stagione estiva, considerando gli scenari peggiori. Secondo due studi innovativi della Fondazione Sviluppo Sostenibile e del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, già solo l’incremento della temperatura fino a 2°C determinerà un crollo del 3,7% del Pil su base nazionale nei prossimi trent’anni. E dell’8,5% se si considera il periodo compreso tra il 2021 e il 2080. Un danno importante, ma che non sarà assorbito in modo omogeneo. Infatti, i cambiamenti climatici aumenteranno la disuguaglianza economica tra le regioni italiane e gli impatti negativi saranno più elevati nelle aree più povere del Paese. «Se consideriamo il reddito procapite, la disuguaglianza regionale salirebbe del 16% nel 2050 e del 61% nel 2080 rispetto alla media considerata nella serie storica che va dal 1990 al 2015», spiega Andrea Barbabella, responsabile Energia e Clima della Fondazione Sviluppo Sostenibile e coordinatore di Italy4Climate.
«Le ripercussioni sui Pil regionali sono uno degli effetti della previsione di crescita della temperatura a livello nazionale.
Tra l’altro, consideriamo che l’Italia ha già registrato un innalzamento di 1,7 gradi rispetto al periodo preindustriale, contro gli 1,1 gradi registrati in media nel mondo nello stesso lasso di tempo». Perché il nostro Paese, come le altre nazioni dell’Europa meridionale, soffre di più i cambiamenti climatici: le stime prevedono che i danni economici nel sud Europa saranno otto volte maggiori di quelli nel nord. Oggi infatti un quarto della disuguaglianza globale tra nazioni è stata attribuita al cambiamento climatico. E l’Italia, pur non essendo fra le aree più povere e vulnerabili in assoluto, paga la sua collocazione mediterranea, che la rende u- no dei Paesi europei più esposti: il Mediterraneo è infatti caratterizzato da mutamenti climatici più accentuati rispetto ad altre zone del pianeta. Analizzando poi la dimensione locale, le zone più calde saranno quelle maggiormente colpite economicamente dall’aumento della temperatura: da noi, si tratta anche delle regioni più povere. Per queste ragioni l’impatto dei cambiamenti climatici porterà ad una crescente disuguaglianza economica a livello nazionale.
Da cosa nascono i danni economici di origine climatica che interesseranno maggiormente il nostro Belpaese?
Innanzitutto, da alluvioni ed eventi atmosferici estremi che aggraveranno i costi del disse- sto idrogeologico: siamo la nazione europea con la più alta esposizione economica al rischio alluvionale. Poi dalle variazioni delle produzioni che causeranno diminuzione dei raccolti a livello agricolo. Quindi dall’avanzamento dell’erosione delle spiagge che colpirà il turismo. E il livello dei mari salirà. Nel periodo 2021-2050, sarà mediamente più alto di circa 7 cm nell’Adriatico e nel Mar Ionio, mentre nel Mediterraneo occidentale arriverà a circa 9 cm.
Per quanto riguarda le precipitazioni, nei prossimi trent’anni è probabile una riduzione diffusa su tutto il territorio nazionale delle piogge estive, con picchi del 60% in zone della Sardegna e del sud Italia. In inverno, le precipitazioni si ridurranno sulle Alpi, sugli Appennini, in Calabria e nell’area centro-orientale della Sicilia, mentre aumenteranno nell’area padana e lungo la costa adriatica e tirrena. Ma durante tutte le stagioni aumenterà l’intensità delle precipitazioni: dovremo quindi aspettarci meno piogge, ma più violente. E la neve? Ne avremo sempre meno. Nei prossimi trent’anni si prevede la riduzione dei giorni di copertura nevosa (da -20 a -40 all’anno) su tutto l’arco alpino. Secondo l’Ocse, già in caso di una variazione moderata di temperatura (+1°C), tutte le stazioni sciistiche del Friuli Venezia Giulia si troverebbero al di sotto della “linea di affidabilità neve” (l’altitudine oltre la quale il manto nevoso è sufficiente a garantire una “sciabilità” stagionale) mentre in Lombardia, Trentino e Piemonte le stazioni utili rimarrebbero, rispettivamente, solo il 33%, 32% e il 26% del totale.
Considerati tutti questi fattori, a soffrirne sarà il turismo: in uno scenario di aumento della temperatura di 2°C, si stima una riduzione del 15% degli arrivi internazionali.
Non solo danni che producono mancati introiti o spese indirette, ma anche costi diretti. In generale, dove i cambi climatici saranno più drastici, cresceranno i costi dei consumi di energia elettrica a causa degli impianti di refrigerazione e quelli sanitari per l’aumento di patologie causate dall’innalzamento delle temperature.
In ogni scenario, chi è più ricco crescerà ancora, inversamente a quanto accadrà a chi è più povero, aggravando la disparità regionale. Pensiamo all’orizzonte temporale del 2080. Lombardia e Trentino Alto Adige, le due regioni più ricche per reddito pro capite, totalizzavano rispettivamente il 15,2% e il 4,8% del Pil Italiano tra il 1990 e il 2015: nel 2080, per solo effetto degli impatti climatici, tali percentuali dovrebbero salire al 17,6% e 7,6%. Al contrario, regioni più povere in termini di reddito pro capite come Puglia e Sicilia passeranno in sessant’anni da un contributo al Pil italiano rispettivamente del 3,9% e del 4,4% ad uno del 3% e del 3,4%. «Ma bisogna essere cauti – continua Barbabella – i reali impatti dei cambiamenti climatici potrebbero essere sottostimati. Ci saranno incrementi della produttività degli occupati perché aumentano attività agricole ad esempio in certe zone del nord, così come una diminuzione di produttività delle persone e di resa agricola dei terreni nelle regioni più calde. Ma sono solo esempi. Il dato generale è comunque di un abbassamento del Pil a livello nazionale». Come dire che tutti i territori perderanno economicamente, se si considera il lungo periodo.
Il contrasto ai cambi climatici richiede politiche di mitigazione e adattamento. In ogni caso, esige azioni concrete e rapide, perché i danni derivati dal riscaldamento globale sono incrementali.
È il momento di scelte coraggiose, supportate anche dallo strumento storico del Green Deal europeo e dalla congiuntura provocata dalla pandemia.
Perché il Covid deve essere un’occasione di riscatto e cambiamento. Una soluzione, secondo lo studioso, è la leva fiscale: «Passare da un sistema di fiscalità basato sul lavoro, cioè sui redditi, ad uno basato sull’impatto climatico: sarebbe già uno strumento di riequilibrio sociale. Ma una riforma del genere funziona solo se associata a misure di compensazione del reddito delle fasce più deboli. Se fai una riforma fiscale in chiave ecologica, realizzi qualcosa di storico. Perché la disparità sociale e i cambiamenti climatici sono i due grandi temi del nostro secolo». Per questo vanno affrontati in modo efficace e sinergico. E quanto prima possibile.
(Avvenire)