Il Natale che ci attende è di sicuro atipico.
Mascherine, distanziamento, restrizioni di orario, divieto dei cenoni: tutto ciò però non tocca la bella tradizione, che proprio l’anno scorso ci ricordava papa Francesco con la Lettera Admirabile Signum, «di preparare il presepe nelle nostre famiglie».
Proprio in queste circostanze il presepe mi pare un segno di grandissima speranza.
Ripenso a ‘Natale in casa Cupiello’. Scritta nel 1931, anche quello un periodo difficilissimo per il nostro Paese, l’opera di Eduardo De Filippo vede il cuore buono del padre resistere abbarbicato al presepe e campeggiare eroico in mezzo a inganni, povertà, tradimenti, ripudii, guerra e profittatori.
Tutto si supera perché «mi piace o’ presepe». Anche se allestito con libri vecchi o il più improbabile materiale di recupero, il presepe promette una vita che ci fa sperare anche nella notte che stiamo vivendo. Col pensiero colmo di cordoglio per quelle case, per quelle famiglie, che resteranno con delle sedie vuote perché il Covid si è portato via tante persone care, il presepe ci invita ad accogliere quella luce, a ospitarla nelle nostre case, a coltivarla nel nostro cuore, a provare a viverla nel quotidiano. ‘Natale in casa Cupiello’ mi fa ricordare che, oltre alle normali statuine, nel presepe napoletano c’è Benino, il pastorello che dorme.
È il guardiano delle pecore. La sua figura è implicitamente contenuta nel vangelo visto che Luca, dicendoci di pastori «che vegliavano» (cfr Lc 2,8) parla di quel normale lavoro di custodia per cui alcuni vegliano mentre altri dormono. «Io dormo – immagino che dica Benino – ma il mio cuore vigila e, dentro questa attesa di sogno, c’è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. In mezzo alle mie pecore bianche, una luce più grande della luna e del sole è sorta e risplende in una grotta, nel vagito di un infante, e chiama me e l’umanità a svegliarsi e a rinascere. Se continuassi a dormire, nel mio sogno ci sarebbe la tristezza di chi è vissuto senza accorgersi più dello stupore delle piccole cose. Di un Dio bambino che, somma delicatezza, si annuncia a me attraverso il sogno, il mio sogno. Mentre dormo, non c’è stato mai nulla di più vero, né amore più certo di questo che sento e credo.
Con gli occhi chiusi, col cuore in pace». Per il vangelo, Benino ha nel presepe un luogo sicuro e pieno di dignità. Come è giusto avvenga per i sogni che, nella Bibbia, hanno grande rilievo. Basti pensare alle straordinarie figure del patriarca Giuseppe e allo sposo di Maria. La vita insegnerà a Giuseppe, quando sta in Egitto, che il senso del sogno è il senso stesso delle nostra vita e che per questo, lungi dall’essere mera premonizione, il significato del sogno riguarda l’amore di Dio che si rende presente nella vicenda umana: «Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? » (Gn 40,8).
E così Benino ci ricorda che per conoscere veramente i nostri sogni non dobbiamo ricorrere a strane cabale o a moderni algoritmi. I due Giuseppe che ho citato, entrambi, sono chiamati non semplicemente a imparare a leggere il propri sogni, ma a collocare ciò che sognano nell’ambito di ciò che accade loro. Per conoscere la spiegazione dei nostri sogni non dobbiamo fare appello solo sulla saggezza, ma sulla relazione con il nostro Dio.
L’interpretazione dei sogni appartiene al potere di Dio, ma questo potere passa per la nostra libertà e non potrebbe essere altrimenti. Giuseppe avrebbe potuto rendere schiavi i suoi fratelli, lo sposo di Maria avrebbe potuto obbedire in maniera meccanica all’angelo che gli diceva di tornare a Betlemme «ma avendo saputo che regnava Archelao» (Mt 2,22) decise di indirizzare diversamente la propria vita. Essere ‘uno che sogna’ significa essere un contemplativo, uno che sa guardare. Essere, in senso proprio, un profeta: uno che rompe la crosta della realtà, per vivere fino in fondo la comprensione di ciò che significa essere in alleanza con Dio. Perché se non si è capaci di sognare, di essere ‘come Benino’, non si è capaci di guardare e non si è neppure capaci di vivere in alleanza con Lui.
(Avvenire)