La corsa all’utilizzo delle risorse del Recovery Fund è cominciata. E i pretendenti che vogliono avere voce in capitolo sono numerosi. Il Governo, ovviamente, con il presidente del Consiglio e alcuni ministri. Quali? Di sicuro Vincenzo Amendola (Affari europei) al quale si è prontamente affiancato Luigi Di Maio (Esteri). Tenere fuori il titolare del dicastero all’Economia Roberto Gualtieri è impossibile e di sicuro anche il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli è pronto ai blocchi. E poi? Poi c’è il Parlamento.
Vale a dire partiti di maggioranza e opposizione ben distribuiti nelle commissioni di Camera e Senato. O forse no, il testimone passerà ai tecnici di un’ennesima cabina di regìa. Si parla di sei manager di circa trecento tecnici che sarebbero sul punto di essere chiamati a gestire i fondi. E poi? Possibile che i presidenti delle Regioni non vorranno alzare la voce per farsi sentire? Tra Nord, Centro, Sud, sono venti e l’emergenza Covid lo ha insegnato: ognuno va per sé.
Sia concesso un pizzico di autoironia. Siamo un Paese che intitolarlo alle “cento città” è un eufemismo. L’Italia va come va: sembra sempre “per miracolo”. Altri Paesi europei hanno tratto dall’appartenenza alla casa comune leve fondamentali per sollevare le proprie economie. La Germania ha colmato in un paio di decenni il suo divario interno. Il nostro Paese resta invece tuttora quello con il maggiore gap territoriale. Il più esteso e omogeneo rispetto a tutte le altre economie. I fondi strutturali sono il principale rubinetto da cui sgorgano i soldi che l’Unione europea distribuisce a ogni Stato. Sono cinque e, a parte il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Fseasr) e il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp), i primi tre rientrano nella categoria dei fondi di coesione.
Ci sono il Fondo europeo di sviluppo regionale, il Fondo sociale europeo, il Fondo di coesione che hanno l’obiettivo di promuovere la crescita economica e ridurre le diseguaglianze all’interno dell’Eurozona. Orbene, secondo un report della Corte dei Conti europea, l’Italia è penultima per capacità di assorbimento dei fondi del bilancio 2014-2020 con circa il 38% delle risorse effettivamente erogate dall’Unione europea. Preceduta dalla sola Croazia. Perché l’Italia non riesce a spendere i fondi europei? È una domanda che ritorna ciclicamente, ma che si è fatta più pressante ora che si parla di cosa fare e come gestire oltre 200 miliardi di euro che il Recovery Fund ha destinato all’Italia. Sembra che si debba imparare in corsa a recuperare efficienza: se ciò non accade i miliardi previsti dal Piano di ripresa e resilienza del nostro Governo (74,3 miliardi per la transizione green più 27,7 miliardi per le infrastrutture della mobilità) non produrranno uno sviluppo duraturo. Ecco, allora, due questioni dirimenti.
La prima riguarda le autorizzazioni: semplificare e rendere più fluido il permitting per infrastrutture strategiche come quelle energetiche è fondamentale. Perché il paradosso frequente in questo settore non può perdurare: avere risorse disponibili e non poterle spendere nei tempi giusti. Non dimentichiamo che occorrono cinque anni per autorizzare una linea elettrica ad alta tensione o un gasdotto, undici per ultimare una infrastruttura di questo genere. Semplificare è la precondizione per spendere bene.
La seconda questione riguarda invece la Pubblica Amministrazione. È la chiave di volta della gestione dei fondi europei, ma è un mondo che spesso fa a pugni con le competenze digitali e le soluzioni applicative tipiche del modello 4.0. Diciamola tutta, la qualità del personale amministrativo e burocratico è spesso inadeguata. Lo dicono alcuni dati essenziali, vale a dire una media di 50,7 anni della PA italiana, molto più avanzata di quella di Regno unito e Francia – con solo quattro addetti su dieci a possedere una laurea.
Nelle scorse settimane si è parlato della istituzione, a Napoli, di un polo Agritech: un grande centro di ricerca, formazione avanzata e sviluppo di professionalità specifiche per un settore nel quale la Campania svolge oggi un ruolo importante. Potrà coinvolgere l’intera filiera del cibo e aprire scenari inediti al settore, se si avrà la lungimiranza di seguire un modello di successo come il polo tecnologico di San Giovanni a Teduccio, un centro di formazione digitale che si avvale oggi di ben cinque academy (Apple, Digita, Cisco, Fs e Capgemini) ed è stato premiato dalla Commissione europea come best practice di utilizzo del fondo di sviluppo regionale. Un modello da replicare non solo per il polo Agritech, ma per una concentrazione di competenze e know how di alto profilo che funga da fucina di una amministrazione pubblica avanzata e moderna, che non punti più soltanto sui profili accademici di Giurisprudenza ed Economia, ma che si avvalga di una leva di giovani architetti, ingegneri, geologi, statistici, pianificatori del territorio si cui la PA non dispone, se non in quantità tanto ridotte da risultare inefficaci.
(Il Riformista)