Monsignor Checchinato e gli operatori della Caritas hanno visitato l’area nella diocesi di San Severo che ospita 800 migranti. Dopo le minacce a medici e volontari, sembra tornato un clima di rispetto
«È stato un incontro tra amici». Così il vescovo di San Severo, monsignor Giovanni Checchinato, ha descritto la sua visita al “gran ghetto” di Torretta Antonacci, nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico.
Non è la prima volta che il vescovo visita l’insediamento dove attualmente vivono circa 800 braccianti immigrati, 150 nel campo container realizzato dalla Regione Puglia dopo l’incendio che il 4 dicembre 2019 aveva distrutto circa cento baracche, il resto nella baraccopoli. Tra acqua e fango. E tanto freddo.
Don Gianni, come ama essere chiamato, tornerà il 27 dicembre per celebrare la Messa. «Me lo avevano chiesto alcuni di loro, ne abbiamo parlato e non ci sono state opposizioni». Gran parte degli immigrati sono infatti musulmani, ma non mancano cattolici.
Intanto ieri il vescovo ha parlato con loro, in particolare con chi stava facendo la fila allo “sportello” che tutti i venerdì organizzano i volontari della Caritas diocesana per ascoltare i problemi degli immigrati. Poi tutti insieme hanno mangiato il panettone. «È stato un bel momento di condivisione, vedere i loro sorrisi e scambiarci gli auguri di Natale» commenta il vescovo.
Da mesi solo la Caritas è presente nel “gran ghetto”. «Non li abbiamo abbandonati. Tutte le settimane i nostri volontari sono lì» spiega il direttore don Andrea Pupilla. Malgrado l’emergenza Covid-19, fino al termine di ottobre è andato avanti il corso di italiano, frequentato ogni volta da una ventina di immigrati. Non si è mai interrotto e ancora prosegue lo sportello informativo.
«Abbiamo avuto un boom di richieste nei mesi estivi, legato alle procedure di regolarizzazione – ci spiega Serena De Michele, mediatrice culturale -. Poi c’è stato un calo, ma ora c’è nuovamente la fila, 15-20 persone ogni venerdì». Cosa vengono a chiedere? «Di aiutarli per la residenza, i permessi di soggiorno, o anche solo per capire la loro posizione. Molti trovano difficoltà per aprire un conto corrente alle Poste, anche se è un loro diritto».
Chi è riuscito ad avere il permesso di soggiorno grazie alla regolarizzazione ora dovrà rinnovarlo ma, avverte Serena, «sarà complicato e c’è il rischio di avere nuovi irregolari».
Tra gli immigrati si è sparsa la voce che il Parlamento sta modificando il cosiddetto “decreto sicurezza” che tanti problemi ha provocato. «Lo hanno saputo e mi chiedono con speranza “Serena, è vero che lo stanno cambiando?”».
Ma da novembre, ci dice ancora don Andrea, «siamo bombardati da richieste per il freddo. “Non avete un posto dove farci stare?”. Purtroppo non ne abbiamo, però abbiamo fatto un appello per le coperte e in pochi giorni ne sono arrivate a centinaia. Gliele stiamo portando assieme ad abiti pesanti».
Davvero i volontari non lasciano soli gli immigrati del “gran ghetto”, «soprattutto ora che comincia il periodo più difficile», aggiunge il sacerdote. L’unica presenza, torniamo a ripeterlo, tra baracche, roulotte e container.
Sono scomparse le bandiere dell’Usb da quando il loro leader Aboubakar Soumahoro ha deciso di lasciare il sindacato per fondare un proprio movimento. Ci sono ancora alcuni suoi collaboratori che all’inizio dell’estate, con atteggiamenti minacciosi, avevano impedito alla Caritas l’accesso all’insediamento. Non svolgono alcuna attività ma sembrano aver ancora una sorta di controllo e comunque osservano l’attività dei volontari.
Il container che la Regione aveva assegnato alla Caritas, ma le cui chiavi erano state prese da queste persone, è chiuso da mesi. Nessuno lo usa o lo può usare. Così i volontari devono svolgere le attività all’aperto o sotto un tendone.
L’unica altra presenza è quella della Asl per l’emergenza Covid-19, ma come è successo un mese e mezzo fa, quando c’è stato bisogno di un aiuto per distribuire mascherine e kit igienici ci si è rivolti alla Caritas. Anche al “gran ghetto” ci sono stati dei positivi ma tutti asintomatici. «Ma molti – ci riferisce Serena – hanno paura ad andare in ospedale per farsi curare per altre malattie o traumi, frequenti tra chi vive in baracca e lavora nei campi. Temono che col tampone poi li ricoverino e quindi di perdere il lavoro. Così si tengono le ferite o le mani e i piedi piagati».
Anche questo, purtroppo, una conseguenza delle minacce della scorsa estate che hanno allontanato anche i medici di Intersos che con l’ambulatorio medico da anni seguivano il “gran ghetto”. Ma quella brutta pagina sembra ormai passata, almeno per i volontari che anche ieri col loro vescovo hanno presidiato la prima linea del bene.
(Avvenire)