Leggendo con le lenti del presente l’intervento pubblico in economia, appare utopico pensare che i vari tipi di nazionalizzazione prospettati per l’Ilva di Taranto possano segnare una sostanziale discontinuità con lo stato di crisi della fabbrica siderurgica. Occorre invece guardare alle mobilitazioni che nel corso degli anni hanno contestato le decisioni governative
«Torna l’acciaio di Stato»: l’accordo tra Invitalia e ArcelorMittal, la multinazionale che gestisce l’ex Ilva di Taranto, è accolto nel dibattito pubblico e mediatico mainstream con toni enfatici. L’intesa segna l’inizio del percorso che porterebbe lo Stato, in due anni, ad acquisire la maggioranza della società AM InvestCo, attualmente controllata da ArcelorMittal.
In sostanza, Invitalia, agenzia di proprietà del Ministero dell’Economia, investirà nella AM InvestCo. Il primo investimento di 400 milioni di euro sarà effettuato entro il 31 gennaio 2021, è subordinato all’autorizzazione antitrust dell’Unione Europea e attribuisce a Invitalia il controllo congiunto di AM InvestCo.
Con il secondo investimento di 680 milioni di euro, previsto per maggio 2022, la partecipazione di Invitalia in AM InvestCo raggiungerà il 60%. Al termine dell’operazione, Invitalia sarà azionista di maggioranza della società.
Ci sono, però, delle condizioni sospensive tutt’altro che politicamente neutre: lo chiarisce la nota di ArcelorMittal. La conclusione dell’acquisizione delle quote è subordinata alla modifica dell’attuale piano ambientale, alla revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto, all’assenza di misure restrittive, nell’ambito del procedimento penali in cui Ilva è imputata, nei confronti di AM InvestCo.
ARRIVANO I NOSTRI?
Alla luce della procedura delineata nell’accordo, non sembra il caso di parlare di nazionalizzazione. Anche se la procedura dovesse effettivamente concludersi nei termini definiti, la gestione dell’impianto siderurgico sarebbe in ogni caso affidata a una società privata, benché a capitale pubblico. Il conseguimento degli utili continuerebbe a costituire l’obiettivo di fondo e la ragion d’essere della fabbrica. L’assetto produttivo, l’impatto ambientale e i livelli occupazionali sarebbero inevitabilmente calibrati di conseguenza. È molto facile immaginare che la nuova compagine societaria garantirebbe – anche alla luce delle clausole sospensive – la sostanziale continuità con i disastri sociali e ambientali del presente.
Peraltro, a fronte della finta nazionalizzazione in corso, la prospettiva di una vera nazionalizzazione non è affatto l’orizzonte auspicabile. Leggendo con le lenti del presente l’intervento pubblico in economia, appare utopico pensare che possa segnare una sostanziale discontinuità con le crisi attuali.
La belle époque dello Stato gestore dell’acciaio è tale soprattutto col senno del poi. Che cos’è oggi lo Stato? Qual è la razionalità dominante che guida l’azione di governo sviluppata dalle sue articolazioni? Con i piedi nelle polveri dell’ex Ilva, la domanda acquisisce una dimensione tutt’altro che astratta. Lo stabilimento siderurgico di Taranto è ancora in opera, nonostante la certificazione, anche giudiziale, della sua dimensione intrinsecamente nociva, grazie alla lunga, sfacciata, violenta sequenza di decreti salva Ilva nell’ultimo decennio.
Da una prospettiva più generale, il modello di produzione attuale non è affatto segnato da una complessiva ritirata delle istituzioni statali a fronte dell’avanzata del mercato. Al contrario, la torsione neoliberista della società investe, a pieno titolo, anche la sfera pubblica statale, attiva in soccorso delle esigenze delle imprese e del profitto. È con queste lenti che va letto l’accordo Invitalia-ArcelorMittal: è un’ulteriore tappa di un percorso di lungo periodo nel quale la continuità produttiva dell’acciaio è resa possibile dall’intervento diretto dei governi.
L’EFFETTO-LEOGRANDE
L’enfatizzazione dei toni nel discorso pubblico mainstream si coglie anche in un riflesso condizionato, quasi pavloviano: c’è la nazionalizzazione dell’Ilva, Alessandro Leogrande era per la nazionalizzazione dell’Ilva, dunque si recupera un suo articolo purchessia per lasciar dire a lui il niente che si ha da dire. Dimenticando che Leogrande era per la gestione pubblica dell’Ilva, senza sconti su salute, ambiente e diritti dei lavoratori – chi ricorda le firme facili di Fim e Uilm, ma anche della Fiom locale, sa cosa voleva dire questa intransigenza – a partire da un riformismo radicale che lo portava a credere in una funzione positiva dello Stato.
Non è questo il luogo in cui discutere dei limiti, ma anche dei pregi, della sua visione politica: ma è bene ricordare quello che Leogrande ha scritto nei suoi ultimi anni, avendo esperito il fallimento del riformismo pugliese nel decennio vendoliano, e cominciato a riconsiderare in termini forse autocritici la presenza della Fabbrica a Taranto.
Vedi la lunga intervista a Guglielmo Minervini – una delle anime del riformismo autentico nelle giunte Vendola, anche lui come Leogrande morto prematuramente –, col franco riconoscimento dell’isolamento dei riformatori (Gentili, Minervini) e del prevalere di quelli che su caporalato, migranti, ambiente «hanno preferito, alcuni innocentemente, altri meno, spazzare la polvere e lo sfruttamento sotto il tappeto»;
vedi l’ammissione che, qualunque cosa succeda all’Ilva, “Taranto deve comunque uscire dalla monocultura siderurgica che nell’ultimo mezzo secolo non ha fatto altro che alimentarsi dalle sue stesse viscere” (Dalle macerie, p. 269, ma anche qui).
Il lascito dei suoi ultimi scritti (che hanno valore proprio perché Alessandro non sapeva che sarebbero stati tali) è l’avvio di una riflessione disincantata e disillusa sulla natura dello Stato centrale e dei poteri locali, su quanto sia realistica una prospettiva di cambiamento che finga di non vedere il tramonto di molte illusioni. Ossificare Leogrande, farne un santino da sventolare, è il peggior servizio che può essere fatto a lui, e a Taranto.
IL TEMPO DEL DOPO
La lunga sequenza dell’attivismo di Stato a garanzia della produzione è iscritta nella natura delle cose? È l’eterno esito inevitabile dell’affaire Taranto? Gli sforzi più significativi, nel tempo presente, vanno spesi per sottrarre il futuro della città da ogni prospettiva ineludibile. L’accordo Invitalia e ArcelorMittal è la puntuale sintesi dell’attuale congiuntura politica, né più, né meno. Si tratta dell’intervento più spregiudicato finora configurato in difesa della produzione siderurgica inquinante. Questa circostanza è un indizio: prima della formalizzazione dell’accordo, la continuità produttiva e l’esistenza stessa dello stabilimento sono sembrate – come non mai – effettivamente a rischio.
È una traccia da seguire: la roadmap che dovrebbe condurre Invitalia al controllo della maggioranza della società che gestisce l’ex Ilva è tutt’altro che lineare. Le condizioni sospensive sono, ad esempio, il puntuale indicatore di come la partita sia tutt’altro che chiusa.
Non è tempo, ovviamente, di preparare i popcorn per vedere come va a finire. Viceversa, il percorso definito dall’accordo Invitalia-ArcelorMittal sembra decisamente molto più instabile di come è rappresentato. Nonostante l’intesa, la chiusura dell’ex Ilva non è affatto impossibile. Le posizioni assunte dal sindaco di Taranto e dal presidente della Regione Puglia sono il segnale di quanto un certo sentire diffuso della città induca anche le istituzioni locali ad assumere posizioni di contrarietà – benché strutturalmente al ribasso – all’azione del governo.
Più in generale, la storia della città, negli ultimi quindici anni, è segnata da intense mobilitazioni che, in diverse fasi, sono state capaci di incidere nell’ordine del discorso pubblico e nell’agenda politica. Molte energie sono ancora in circolo. Moltissime altre possono attivarsi, anche alla luce del fresco vento globale delle mobilitazioni per la giustizia climatica e ambientale. L’accordo Invitalia e ArcelorMittal non è la fine di ogni prospettiva di chiusura dello stabilimento inquinante: caratterizza la specifica contingenza nella quale è necessario e possibile condurre la città al di fuori dell’attuale gabbia d’acciaio.
(DinamoPress)