“Non morire”, titolo in italiano di “Undying” di Anne Boyer, Premio Pulitzer 2020, è una testimonianza sull’esperienza di un tumore al seno, frammentata e lucida allo stesso tempo, ribelle e femminista
Un testo suddiviso in frammenti, un oggetto, un diario, un pamphlet, che sfugge ad un inquadramento linguistico ma nell’immediato risulta estremamente politico. Una scrittura che parte da sé e che però interroga di continuo il “fuori”, si mette in discussione, scivolando continuamente in registri differenti.
Quando Boyer scrive «Mi è stato diagnosticato un cancro al seno”, si rende conto che rischia di riprodurre i sentimenti artificiosi comuni alla forma narrativa – classica o social come accade sempre più- dedicata alle malattie oncologiche e al tumore al seno in particolare – e di esserne soffocata. Quella frase con “io”’ e “cancro al seno” rischia di collocarla in una prospettiva di “consapevolezza” che “diventa una pericolosa ubiquità».
Mentre una volta la minaccia alla cura per il cancro al seno era il silenzio o meglio il pudore, ora, secondo Anne Boyer è «il frastuono della straordinaria produzione di linguaggio del cancro al seno».
Ciò che sappiamo di lei lo apprendiamo via via leggendo: è una madre single con uno stipendio medio come insegnante in un college per l’arte e il design a Kansas City. Le viene diagnosticato un tumore al seno triplo negativo, così chiamato perché è un tipo di tumore che non ha nessuno dei tre tipi di recettori per estrogeni, progestinici e proteina HER2 e colpisce principalmente le donne giovani e riguarda il 10-20% delle diagnosi complessive di cancro al seno. Ciò significa anche che non ha opzioni di trattamento mirate.
Il tumore di Anne cresce a una velocità superiore a quattro volte la soglia di quello che è considerato “altamente aggressivo”. Le sue probabilità di sopravvivenza, apprende usando un “calcolatore della prognosi” online (!), sono un po’ più alte del 50 per cento. Inizia un trattamento comune chiamato “chemioterapia AC a dose densa” ma il tumore non si riduce. Legge studi, cambia medico nonostante il suo fosse preziosamente empatico, inizia un controverso trattamento chemioterapico ritenuto efficace per il suo specifico sottotipo di cancro. Il suo tumore si restringe. Si sottopone a una doppia mastectomia di cui dettaglia la crudeltà di svolgersi in day hospital, senza alcuna presa in carico del dopo, della convalescenza, dello stato d’animo, ed è costretta a tornare al lavoro. Viene però, a fine percorso, dichiarata “libera dalla malattia”: soprravvissuta/undead.
Alcune parti del libro si presentano come poemi in prosa, talvolta delicati e che talvolta, invece, arrivano diretti come pugni nello stomaco, mentre altri sembrano piuttosto brevi saggi – di natura politica e di denuncia, pronti ad essere stampati e diffusi in migliaia di copie.
In più di una pagina, infatti, l’attenzione della scrittrice, e dunque la nostra, è dirottata su un’indagine accurata sull’industria farmaceutica, sul funzionamento del sistema sanitario statunitense e sulla “cultura rosa” orientata al business e molto poco a quella che sarebbe una fondamentale urgenza di sostegno alla ricerca rivolta alla prevenzione, mettendone in luce gli aspetti più controversi e attuali.
Altri frammenti invece ci trascinano in un diario intimo ma non lineare, in cui mette a nudo (e a crudo) la solitudine della malattia, la paura, la necessità di elaborare la possibilità della morte. Le stesse pagine o altre dopo, scritte nello stesso registro ci parlano però anche di possibilità di vita, di famiglie non convenzionali e di comunità possibili: collage di stati d’animo. In altri casi, infine, sfogliando il libro si ha invece la sensazione di trovarsi davanti ad un manuale di istruzioni o un decalogo di imperativi categorici.
Soprattutto però “Undying”, è un libro “di ricerca” di bussole, a partire dalle citazioni e dai riferimenti di una ipotetica “letteratura della malattia” classificabile come tale, svelando una particolare attrazione nei confronti di alcune autrici, di diverse epoche e provenienze, di un certo linguaggio volto a decostruire la narrazione dominante sul cancro, le pubblicità patinate, le fake news da internauta principiante, ma anche di ricostruzione di un punto di vista “collettivo”, dopo essersi scagliata contro l’individualismo, americano, in modo particolare.
E’ un libro che nel suo insieme svolge una coraggiosa operazione, interrogando in primo luogo i e le sopravvissute e ritagliando finalmente “a loro misura” uno spazio ibrido, comunque incomodo come spesso è la vita dopo il cancro, di osservazione partecipante più che di eroismo o di colpa, ma che si rivela un tassello fondamentale per costruire uno sguardo complessivo su come l’intera struttura sociale sia oggi pervasa dalla malattia e ridisegnata nelle relazioni sociali, affettive, economiche che la malattia – e la via neoliberista alla cura – impongono.
Anne Boyer condividendo la propria esperienza personale di tumore al seno, un tumore specificatamente femminile, che espone il corpo delle donne a processi di medicalizzazione con pretesa di neutralità (come se si trattasse di un avambraccio per capirci), ci chiede anche un atto di ribellione al “potere” di insubordinazione della diagnosi, alla persistenza della cultura patriarcale insita nel sapere medico che si inscrive – però – in una storia situata di rivolte femministe e di presa di coscienza da parte dei movimenti di donne che hanno lottato in un recente passato per sottrarre il corpo ad un profondo e capillare controllo sociale legittimando una rappresentazione della femminilità legata – per sempre – all’essere vulnerabile.
La vulnerabilità è ovunque nel testo di Anne Boyer ma mai definita in modo univoco, quanto piuttosto sfumatura della rabbia e della capacità di resistenza (resistenza non “solo” resilienza) e di capacità di trasformazione e di relazione, delle donne, ma soprattutto tra donne.
Tra i riferimenti più ricorrenti, alcuni passaggi di Audre Lorde nel The Cancer Journalsdi nel quale la poetessa esplora il potenziale radicale dei sentimenti durante la diagnosi e la cura del cancro per fornire nuove informazioni su come resistere all’oppressione e creare spazi per i neri, le lesbiche, le amanti femministe e i poeti.
Qui va fatta una precisazione, correndo il rischio di essere ridondanti: per ribellione e lotta, Anne non intende adagiarsi in quell’iconografia di guerra che viene associata al cancro e in particolare alle donne che lottano conto il tumore al seno. Anne Boyer non vuole diventare una guerriera e non crede nella metafora della battaglia perché è parte di un immaginario che compie un salto inaccettabile e funzionale alla riproduzione del sistema così come concepito. Chi muore di tumore non è un perdente, chi sopravvive non è un vincitore. Ma forse una tale sfumatura si intende solo sperimentando questa condizione.
Scrive Anne Boyer: «Morire di cancro al seno non è una prova della debolezza o del fallimento morale dei morti. Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti. […]»
«Chi muore e chi no del complesso di patologie chiamato ‘cancro al seno’ lo determina lo stipendio, l’istruzione, il sesso, lo stato familiare, l’accesso alle cure, la razza, l’età».
Una riflessione questa che apre un capitolo complesso, dibattuto a più riprese all’interno di una ipotetica “comunità scientifica globale” e in gran parte ancora da scrivere, che riguarda le diagnosi oncologiche e che rendono il cancro una malattia correlata a fattori ambientali e agli stili di vita più o meno corretti ma che in modo diseguale inchiodano le possibilità di prevenzione e cura al contesto sociale e allo stato di salute del sistema sanitario e della ricerca.
Una questione politica che non può essere delegata al moltiplicarsi di notizie sensazionali sul potere terapeutico del “biologico” o delle bacche di goji e dello zenzero. Non perché necessariamente false ma perché spesso diffuse senza essere contestualizzate in una battaglia (in questo caso battaglia, sì) di più ampio respiro sull’ambiente, che coinvolge tra l’altro la produzione stessa dei chemioterapici, sul diritto universale alla salute e sulla redistribuzione delle risorse. Quel che resta in mano alla fine di questa lettura, oltre a un turbinio di emozioni contraddittorie e uno stimolo a combattere la solitudine e l’isolamento reale o percepito che l’industria del cancro impone assieme ad altre donne e uno strumento di lotta, “undying”.
(Dinamoppress)