In Usa la star della tv quando si parla di pandemia è una medievalista, in Inghilterra stanno ristudiando la “morte nera” di Londra narrata da Defoe. E sono incredibili le similitudini tra ieri e oggi
Si chiama Dorsey Armstrong, americana, è professoressa di letteratura inglese e medievale alla Purdue University in Indiana. Ed è diventata a suo modo una star nelle tv degli States grazie a un libro pubblicato nel 2016: The Black Death: The World’s Most Devastating Plague. Il saggio è stato ripubblicato nel 2020 su Amazone Prime ed ovviamente ha scalato ogni possibile classifica di vendite: un successo. Armstrong non fa la scienziata, non rilascia dichiarazioni choc sui vaccini, si limita a riportare quello che ha studiato ed approfondito da medievalista sulla “morte nera”, quella forma pandemica – probabilmente la Yersinia pestis, prodotta dalle pulci dei topi di fogna – che nel 1330 circa attraverso l’Asia settentrionale raggiunse prima Cina, poi Siria, poi Turchia e a macchia d’olio tutta Europa fino a svanire nel 1353 lasciandosì dietro una lunghissima scia mortale: quasi 20 milioni di vittime.
Ciclicità sorprendente
In un’intervista pubblicata sul Guardian Armstrong racconta – attraverso la storia – le tappe “emotive” che riguardano le pandemie. E che hanno una ciclicità sorprendente. La ricerca dell’untore a cui dare la colpa, ad esempio. Un tempo erano gli ebrei che “stavano avvelenando i pozzi e progettavano di spazzare via la società cristiana medievale”, oggi sono gli asiatici, e certo non hanno aiutato le teorie complottiste di Trump sul “virus cinese”. Altro denominatore che ricorre sono le estremizzazioni del negazionismo. Anche in epoca antica mentre la gente moriva a grappoli per la cosiddetta peste nera, poco oltre si tenevano feste gigantesche, orge e vino a fiumi. La morale insomma era quella di divertirsi prima della fine. Altrimenti flagellarsi, o fare la corte alla Morte danzandole attorno. La danza macabra diventa un archetipo del terrore medievale: in pittura, nelle arti, in letteratura, nel pensiero popolare fino a diventare un carro allegorico nel Carnevale fiorentino del 1511 descritto anche da Giorgio Vasari.
E ancora: ieri come oggi, dalla peste a Covid-19, l’altro fil rouge è la perdita di fiducia nei leader – politici o religiosi. Annota la studiosa: “Non è che la pandemia contribuisca a disordini sociali, è che la pandemia consente ad altri problemi sistemici nella società di diventare più visibili. Non possono essere controllati, contenuti, licenziati o nascosti perché i sistemi che erano in atto per mantenere uno status quo sono troppo impegnati ad affrontare un’altra emergenza “.
In fuga dalle città: Boccaccio insegna
Infine tra peste e Sars-Cov-2 c’è un altro parallelismo da valutare: l’idea costante della fuga, metaforica o reale. Armstrong racconta il vuoto di New York, abbandonata dai suoi residenti che hanno il privilegio di avere seconde case fuori dalla metropoli. E sottolinea: “a Firenze – che era la New York del XIV secolo – i ricchi scapparono in campagna per cercare di evitare la peste nera mentre la città soffriva”. Proprio come narrato da Boccaccio nel Decameron.
Gli intellettuali inglesi stanno dando ampio risalto nelle pagine culturali dei quotidiani all’arte e alla letteratura tra il Trecento e il Seicento, alla ricerca forse di quell’escamotage che indichi anche a noi, globalizzati del Terzo Millennio, l’accesso ad un nuovo Rinascimento. Ci sono veri e propri corsi per rileggere A Journal of the Plague Year (in italiano per Elliot “Diario dell’anno della peste) di Daniel Defoe che, pubblicato nel 1722, racconta i 18 mesi più tragici di Londra (tra il 1665 e il 1666), quando la città perse 100mila persone, quasi un quarto della sua popolazione con la terza grande ondata di peste. Defoe nel suo romanzo riporta i provvedimenti presi all’epoca: un tipo di quarantena per molti versi simile all’attuale, con precauzioni come quella di seppellire i morti ad almeno 1,8 metri di profondità, proibire i funerali e chiudere le case dove si erano manifestati casi dell’epidemia.
Diario dell’anno della peste: le testimonianze di Defoe e Shakespeare
Anche allora furono i più fragili, i poveri e gli indigenti che vivevano in condizioni anguste nei sobborghi del centro città, a soffrire di più. I servi, i calzolai e i commercianti persero il lavoro. Un contatto con una persona infettata significava 40 giorni di quarantena a casa. Una croce rossa era dipinta sulla porta e le sentinelle erano impiegate per assicurare che l’ordine fosse applicato. Defoe con uno sguardo da cronista annota “strani casi di altruismo” tra derelitti, cibo lasciato in dono ai moribondi, una pietas tra disperati mentre il re, Carlo II, e i suoi cortigiani si erano rifugiati ad Oxford.
Al centro delle riletture in Inghilterra anche la pandemia che ebbe inizio nel 1600 e che toccò Londra nel 1606. Per prima cosa vennero serrati tutti i teatri, anzi come scrive Daniel Pollack-Pelzner su “The Atlantic” “gli spettacoli teatrali vennero subito banditi poiché erano considerati come causa della pestilenza”. Chiuse a chiave il portone e abbassò la bandiera anche il Globe Theatre. Pure Shakespeare lasciò la città in fuga. E in quel tempo terribile scrisse “Re Lear”, “Macbeth” e “Antonio e Cleopatra”, glissando sul tema della peste ma in fondo citandola. Pensate a quando Lear rivolgendosi alla figlia Goneril esclama: “Tu sei un bubbone, una pestilenza, o un carbonchio in rilievo nel mio sangue corrotto”.
Ridare voce agli storici
Ecco, forse sarebbe il caso che anche noi riprendessimo in mano le nostre memorie pestilenziali, per esempio I Promessi Sposi di Manzoni o Boccaccio. Oppure ascoltassimo la voce dei nostri storici, come Franco Cardini che in una recente intervista all’Adn Kronos ha detto: “Ci sono delle costanti nelle pandemie rivelate dai testimoni: all’inizio voci piuttosto disarticolate e poco chiare sostengono che molto lontano nel mondo ci sono persone che muoiono come mosche. Poi la cosa si avvicina: in un primo tempo c’è incredulità e, quando si vede che la gente muore anche da noi, all’incredulità si aggiunge il panico. Da qui si parte alla ricerca del nemico metafisico che sparge il contagio per poi rendersi conto che il contagio è tra noi, siamo noi”.
Corsi e ricorsi, lezioni che abbiamo smarrito ma che raccontano molto dell’oggi, di questo 2020 funesto che probabilmente non avrà fine alla mezzanotte del 31 dicembre. E non sembra casuale che Papa Francesco a marzo abbia camminato per le strade deserte di Roma per visitare la chiesa di San Marcello sul Corso e venerare una croce. La stessa che ha protetto Roma dalla peste nel 1522.
(Globalist)