Per lui la poesia era un’esperienza di carattere religioso, una specie di illuminazione mistica subito rielaborata in forma razionale
A Franco Loi piaceva molto raccontare. Non per niente il suo capolavoro, L’angel, è un imprevedibile poema narrativo in milanese, la lingua della quale si era impossessato da bambino, quando la famiglia si era trasferita nel capoluogo lombardo da Genova, dove Franco era nato il 21 gennaio 1930. A Milano il poeta è morto oggi, al termine di un’esistenza nello stesso tempo appartata e avventurosa, nel corso della quale si era imposto come uno degli autori più importanti della sua generazione.
Vincitore di premi prestigiosi, dal Librex Montale al Basilicata, era stato insignito anche dell’Ambrogino d’Oro, l’onorificenza che sanciva la sua condizione di milanese perfettamente imperfetto. Non solo non era nato in città, ma anche i suoi genitori erano tutt’altro che meneghini. Sardo il padre, impiegato delle ferrovie e ispiratore, negli anni Cinquanta, di un romanzo che, pur essendo stato letto all’epoca di Vittorini, è stato pubblicato solo nel 2015 da Hacca con il titolo Diario minimo dei giorni. Dalla provincia di Parma, e più precisamente da Colorno, veniva invece la madre, che può essere considerata il modello di tante figure femminili che attraversano l’opera di Loi.
Alla poesia era arrivato abbastanza tardi, attorno ai 35 anni, dopo un apprendistato in gran parte da autodidatta. In tasca aveva un diploma da ragioniere, con il quale aveva inizialmente trovato posto come contabile per poi approdare al reparto pubblicità della Rinascente e da lì, nel 1962, all’ufficio stampa della Mondadori. Tra i suoi colleghi c’era lo scrittore Ferruccio Parazzoli, insieme con il quale andarono a Barbiana per incontrare don Lorenzo. Milani (il priore li aveva sistemati in due nello stesso letto, testa contro i piedi come si usava una volta). Il direttore letterario dell’epoca, il poeta Vittorio Sereni, era rimasto piuttosto sorpreso dalla proposta avanzata da Loi, che chiedeva una riduzione dell’orario in Mondadori per essere più libero di scrivere e studiare. «Praticamente – rispose Sereni – lei vorrebbe che le concedessi quello che io non sono mai riuscito a fare…». È uno dei tanti aneddoti che Loi si divertiva a raccontare, un po’ rievocando e un po’ reinventando quell’esistenza così appartata, appunto, ma resa così avventurosa dalla purezza di uno sguardo nel quale la meraviglia si mescolava spesso all’ironia.
Militante comunista e collaboratore dell’Unità in gioventù, Loi aveva successivamente sviluppato una spiritualità nutrita dalla lettura continua dei Vangeli, dall’attenzione ai più piccoli e poveri, dall’ascolto della propria interiorità. Per lui la poesia era un’esperienza di carattere religioso, una specie di illuminazione mistica subito rielaborata in forma razionale. In uno dei numerosi interventi apparsi su Avvenire (all’inizio degli anni Duemila aveva anche tenuto la rubrica Diario breve) così aveva descritto il momento della svolta: «Nel 1965 sono stato spinto alla poesia, scrivevo sia in tram o in bus o per strada quel che mi si agitava dentro, e poi a casa rivedevo, correggevo, riascoltavo con stupore. Nel 1970, quando nel giugno-luglio sentii ancora l’impulso dello scrivere, dirò soltanto che mi aggiravo per le stanze di casa e recitavo ad alta voce quanto veniva detto dal mio essere intero, preoccupandomi soltanto di ritenere a memoria per certi tratti le parole che sentivo e come le sentivo». Da questo dialogo con sé stesso erano venuti nel 1973 i versi della sua raccolta d’esordio, I cart, alla quale avevano fatto seguito testi di forte consistenza concettuale e drammaturgica come Stròlegh, uscito da Einaudi nel 1975 con il viatico di Franco Fortini, Teater, Liber, Isman e molte altre pubblicate da Interlinea, Manni, Crocetti. Nel 1981, presso la raffinata casa editrice genovese San Marco dei Giustiniani, era apparsa una prima versione dell’Angel, poi ampliata nel 1994 per Mondadori (il saggio che accompagnava il libro portava la firma di Cesare Segre). «La mia idea – spiegava Loi – era di raccontare la vita di un italiano medio che si muove lungo i momenti cruciali della nostra storia con la convinzione di essere un angelo. È un un testo al quale non ho mai messo la parola “fine”. Nei miei libri successivi c’è sempre stata una sezione intitolata L’Angel, come se avessi ancora bisogno di aggiungere qualcosa». Al poema si era ispirato nel 2014 il regista Giovanni Martinelli per il film Il viaggio del poeta, nel quale Loi ritornava nei luoghi più significativi della sua esistenza.
Esattamente un anno fa, in occasione del suo novantesimo compleanno, Garzanti aveva riproposto Da bambino il cielo, appassionante resoconto autobiografico realizzato in collaborazione con Mauro Raimondi. Un racconto, ancora una volta. E benedetto dalla poesia, come sempre.
(Avvenire)