La presidenza di Donald Trump finisce nel modo più prevedibile e ignobile: con l’assalto di irriducibili supporter dell’estrema destra al Campidoglio e l’abbandono di tutto l’entourage del partito repubblicano (da ieri in minoranza in entrambi i rami del Parlamento). Ma l’incubo nel quale sono entrati gli Stati Uniti negli ultimi quattro anni non è destinato a finire presto
Alla fine è successo quello che era inevitabile che succedesse. Donald Trump ha passato gli scorsi due mesi a tentare di delegittimare in tutti i modi la vittoria, non schiacciante ma a conti fatti comunque molto netta, di Joe Biden e Kamala Harris alle elezioni presidenziali del 3 novembre. L’obiettivo non era tanto quello di ribaltare il verdetto delle urne, quanto consegnare un calice avvelenato a quello che sarebbe stata la nuova amministrazione democratica: Biden doveva insediarsi con il dubbio per milioni di americani (i supporter di Trump sono comunque ancora tantissimi) che le elezioni presidenziali si fossero svolte in uno scenario di irregolarità generalizzate.
Poco importa che nessuna prova venisse portata a sostegno di questa tesi o che tutte le corti di giustizia di ogni ordine e grado (anche quelle che erano state nominate dalla stessa amministrazione Trump) rigettasse le cause portate avanti dal Presidente o che persino senatori fedelmente repubblicani come Ben Sasse del Nebraska ammettessero in privato che nessuno dell’entourage presidenziale credesse davvero alla possibilità di sovvertire il verdetto delle urne:
il Presidente Trump doveva comunque portare alle estreme conseguenze la tesi dell’elezione rubata, della vittoria mutilata, del broglio democratico, per fare sì che da subito quella di Biden fosse un’amministrazione azzoppata.
E tuttavia con il passare dei giorni il gruppo di consenso creatosi attorno a Donald Trump negli ultimi quattro anni è finito a poco a poco per sfaldarsi: prima si è trattato di Fox News che da emittente fedelissima del Presidente si è macchiata di aver assegnato a Joe Biden alcuni stati in bilico a detta di Trump, ancora saldamente in mano a lui il giorno delle elezioni. Poi è stato il turno del Governatore repubblicano della Georgia Brian Kemp (fino a pochi mesi fa uno dei più fedeli del Presidente) e del suo segretario di stato Brad Raffensperger, responsabili di avere avvallato il passaggio dello stato dai repubblicani ai democratici per qualche migliaio di voti, nonostante due riconteggi (di cui uno interamente a mano!) abbiano fugato ogni possibile dubbio.
Poi è stata la volta della Corte Suprema, sulla carta saldamente blindata dallo stesso presidente con un record di tre nomine durante i soli quattro anni del proprio mandato, che ha rigettato tutte le cause di brogli elettorali portati avanti del Presidente. E alle fine si è arrivati persino a Mitch McConnell – il vero e proprio leader dei repubblicani al Senato – che ieri in aula ha stoppato platealmente qualunque tentativo di delegittimazione del processo elettorale, e al vicepresidente Mike Pence che nel comizio mattutino di Trump doveva rappresentare l’ultimo baluardo in difesa del Presidente e che avrebbe dovuto bloccare la certificazioni dei voti elettorali (nonostante non ci fosse nulla nella Costituzione americana che gli permettesse di avere questo potere).
Il cerchio magico del Presidente è andato via via restringendosi nel corso degli ultimi due mesi accompagnandosi a una retorica presidenziale che ha assunto sempre più i toni del delirio psicotico e dell’ossessione di accerchiamento.
Quello che alla fine è rimasto è solo un pugno di avvocati vicini alla famiglia del Presidente (capitanati da una figura caricaturale e delegittimata come Rudy Giuliani) e un manipolo di militanti dell’estrema destra complottista e paranoica, aizzati da figure mediatiche marginali ed eversive come Alex Jones o Steve Bannon e pronte a tutto, persino a invadere il Campidoglio in nome della Carta Costituzionale che il Presidente stesso aveva fatto di tutto per violare nelle scorse settimane. E a Ted Cruz, il senatore del Texas che, unico tra i politici di primo piano del Partito Repubblicano, ha voluto dare il proprio sostegno al Presidente sino alla sua ignobile fine.
Lo showdown della manifestazione di ieri a Washington in cui migliaia di irriducibili supporter trumpiani hanno invaso la seduta congiunta di Congresso e Senato per certificare l’elezione di Joe Biden e Kamala Harris e preso possesso della più importante istituzione della democrazia americana – con una ridicola interposizione delle forze dell’ordine, platealmente sottodimensionate se non in alcuni casi apertamente conniventi con i manifestanti – potrebbe far pensare a un canto del cigno del trumpismo. D’altra parte non si tratta forse di una prova di forza fittizia avvenuta proprio nel momento in cui l’entourage del partito repubblicano ha finalmente ritirato il proprio appoggio al Presidente nel giorno in cui i ballottaggi del Senato in Georgia hanno consegnato una salda (seppur risicata) maggioranza ai democratici in entrambi i rami del parlamento?
Non si tratta solo della forza simbolica nel vedere i maggiori simboli della democrazia americana violati da quelli che fino a poco tempo fa rappresentavano solo un aneddoto appartenente alle controculture dell’estrema destra americana, ma anche di una galassia sociale diffusa, dai contorni sociologici incerti, con cui gli Stati Uniti dovranno avere a che fare ancora per molto tempo nei prossimi anni.
Come ha ricordato spesso Luca Celada, l’evento del trumpismo ha rappresentato una discontinuità profonda nella cinghia di trasmissione che ha legato le istituzioni americane alla propria composizione sociale di riferimento: la crisi della democrazia liberale americana resa trasparente dal trumpismo – con il suo mix di populismo da social network, suprematismo bianco istituzionalizzato e nazionalismo isolazionista – è destinata a rimanere anche dopo la fine di Donald Trump.
Basterebbe prendere nota di un dettaglio inquietante emerso nelle ultime settimane: nei giorni appena successivi alle elezioni dello scorso 3 novembre Donald Trump ha raccolto più di 250 milioni di dollari in donazioni elettorali, la più grande cifra mai raccolta da un Presidente in carica nella storia americana. Giusto per dare un senso delle proporzioni, Bernie Sanders durante la sua intera campagna presidenziale per il 2020 ha raccolto poco più di 200 milioni (in quasi due anni di campagna, Trump ha fatto molto di più in pochi giorni). Si tratta di soldi che sono stati dati con l’esplicito intento di combattere i presunti brogli elettorali – totalmente inventati e senza alcuna prova concreta – di cui Trump sarebbe stato vittima nelle scorse elezioni presidenziali e che non sono stati versati da super-PAC o grandi finanziatori ma soprattutto da piccoli donatori sparsi in giro per gli Stati Uniti.
Per quanto bizzarre e ridicole, e senza dubbio inoffensive se commisurate all’obiettivo di un vero colpo di stato, le immagini dei supporter irriducibili dell’estrema destra trumpiana, agghindate da paramilitari o nostalgici confederati, non devono essere prese sottogamba.
Troppo in fretta la vittoria di Joe Biden e Kamala Harris è stata rubricata, soprattutto dai commentatori italiani, come una vittoria dell’eternità e solidità delle istituzioni della democrazia americana: più forte di tutto e tutti e sempre partecipi di un percorso di emancipazione progressivo. Qualcosa si è rotto nei meccanismi di riproduzione sociale della democrazia statunitense negli ultimi quattro anni ed è qualcosa che si è rotto in modo definitivo. Sarà bene ricordarselo se non vogliamo ricrollare tra pochi anni, se non mesi, in un incubo ancora peggiore.
(DinamoPress)