Come in una matrioska, la crisi di governo è all’interno di una più grande crisi economica e sociale, a sua volta inserita in una crisi sanitaria nazionale e mondiale.
Quella politica è certamente la difficoltà più piccola, ma si può dire sia il vero nocciolo della questione.
E, se non lo si affronta, si rischia di rimanere soffocati dalle incertezze più grandi.
Domani il presidente del Consiglio riferirà alla Camera sull’uscita di Italia Viva dal governo e (al momento) dalla maggioranza che lo sostiene. Martedì sarà la volta decisiva del Senato, dove andrà contato il numero e valutata la consistenza di eventuali altri sostegni. Decisivo però, prima ancora delle votazioni, sarà il programma di governo che verrà presentato. Sul quale andrà chiesta la fiducia, non solo e non tanto ai parlamentari, ma al Paese. Perché senza la fiducia in Senato, certo, il Conte II cade e si aprono nuovi scenari: da un esecutivo guidato da una diversa personalità fino alle elezioni anticipate e a nuove maggioranze tutte da individuare. Ma se non si motiva e non si conquista la fiducia del Paese, almeno di una buona parte di esso, il danno finirà per essere assai più grave: in ballo c’è il futuro dell’Italia. La speranza, infatti, è virtù del cuore umano, insopprimibile, mentre la fiducia è un atteggiamento razionale che nelle persone deve essere stimolato e confermato affinché poi dia frutti in termini di impegno, investimento di risorse e di sé, apertura alla vita.
Oggi, se guardiamo alla seconda bambolina della matrioska, questa fiducia nel futuro che molto muove è ai minimi termini. La crescita italiana è ferma da decenni. Le previsioni ci dicono che – se #andràtuttobene – solo nel 2026 il nostro Pil riuscirà a tornare al di sopra del valore al quale eravamo a dicembre 2019. Ovunque volgiamo lo sguardo, oggi troviamo difficoltà, impoverimento, sfiducia fino alla paura. In quest’anno terribile si sono acuite le diseguaglianze tra chi è protetto e chi no. La cassa integrazione, il Reddito di cittadinanza e quello d’emergenza, pure fondamentali, non hanno tutelato tutti in modo omogeneo. La cassa in deroga e i ristori sono arrivati a singhiozzo e molte categorie di freelance, autonomi e precari d’ogni tipo sono rimasti scoperti. Imprenditori e lavoratori della ristorazione, della cultura, del turismo versano in una condizione di incertezza totale, senza prospettive.
Il blocco dei licenziamenti fino a marzo ha salvato la gran parte dei dipendenti ed è probabile che verrà rinnovato, così come giustamente richiesto dai sindacati. Ma è come mantenere in coma artificiale il sistema produttivo: non si può fare all’infinito. Prima o poi gli anestetici vanno ridotti, il paziente risvegliato per saggiarne la reazione alla malattia, le capacità di adattamento dell’organismo. Quando quel momento arriverà, sarà necessario che il nostro sistema di servizi per il lavoro – pubblico e privato in sinergia – sia messo in grado di assorbire il colpo di almeno mezzo milione di licenziamenti, che aggiunti ai posti già persi fanno un milione di nuovi disoccupati in totale. Senza contare che, se non si può lavorare, i sussidi evitano la fame, ma non che si muoia dentro per la dignità perduta, il senso di inutilità e impotenza.
Sono solo alcuni esempi di ciò che c’è da affrontare. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza impiegherà risorse mai avute a disposizione dal nostro Paese. Ma non è manna dal cielo: investiremo denaro che i nostri figli ripagheranno in termini di futuro livello d’imposte, contributi, occupazione, sviluppo e welfare. Per tutto ciò non basta trovare il voto di qualche parlamentare più o meno “responsabile”. I veri “responsabili” sono stati gli italiani che sinora hanno in larghissima maggioranza rispettato le restrizioni sanitarie, e questo anche se la loro condizione si è fatta precaria, persino drammatica. Cittadini che ogni giorno rinnovano la loro fiducia nella Repubblica, nelle sue istituzioni democratiche, nell’essere “comunità”, anche al di là di ideologie e legittime divisioni politiche.
È anzitutto a questi quasi 60 milioni di “responsabili” che la maggioranza deve chiedere ora la fiducia. Per farlo deve dare senso al suo agire politico, con una visione di futuro, con la capacità di tradurla in politiche e progetti, realizzati con stile di servizio e non per personale protagonismo. Perché i veri «costruttori», così utilmente evocati dal presidente Mattarella, non agiscono da soli, ma sono capaci di mobilitare intorno a loro le energie migliori in tutte le componenti della società e mirano non tanto al guadagno immediato quanto al valore nel tempo dell’opera edificata. La responsabilità è condizione necessaria, ma non sufficiente per governare. E non necessariamente si esercita votando sì. Ciò che conta davvero è colmare il deficit di politica che si è prodotto, ritrovare valori e rotta adeguati. La più piccolina delle matrioske si chiama “seme”. È ciò che serve per far rifiorire la fiducia e la speranza nel Paese.
(Francesco Riccardi, Avvenire)