La vita di Emanuele Macaluso, così lunga e così bella, è stata tradita crudelmente dall’isolamento imposto all’ultimo tempo dalla pandemia e precipitato nella fine
Lo scorso marzo, a Concetto Vecchio che lo intervistava per Repubblica, aveva detto: “Ho avuto una lunghissima vita, piena di grandi gioie e di grandi dolori, ma queste settimane mi sembrano tra le più terribili”.
E’ importante l’ultimo tratto di una vita, può addirittura deciderne. Non si pensa abbastanza al peso di un’interruzione nella vita ordinaria quando, come nei vecchi, possa tramutarsi in una perdita secca, senza recupero. Penso allo scandalo con cui Emanuele ha protestato contro il cinismo nei confronti dei vecchi, persino più imperdonabile quando più distratto – “E’ morto, era vecchio”. Vivere molto a lungo non è necessariamente un merito, può anche essere una colpa, e ce ne siamo difesi proclamando che muore giovane chi è caro agli dei. Ma la longevità è diventata un carattere distintivo del nostro progresso, che la pandemia vuole insidiare. La longevità porta con sé la memoria intima, quella delle cose vissute, oppure la smemoratezza. La memoria è un patrimonio prezioso. Oggi è svalutata. Oggi patrimoni sonanti smisurati si accumulano con pochissima età, in pochissimo tempo. La gente nuova e i sùbiti guadagni generano orgoglio e dismisura.
Emanuele Macaluso è stato sempre un combattente, anche quando certificava lucidamente la fine della sinistra. Aveva a cuore “la battaglia politico-culturale”, la battaglia delle idee, senza di che la sinistra muore. Sapeva rispondere a chi gli chiedesse in che cosa concretamente sostanziarla, la battaglia delle idee, ricordarsi della questione sociale, capire la portata della migrazione, rinnovare l’impegno personale dell’adesione a una parte, a un partito: ma il vero centro della sua “battaglia delle idee” stava nel legame con la storia e con la memoria. Nel privilegio e nella necessità di avere un passato. Personale, la memoria, e collettivo, la storia. E su quello, da una distanza di sicurezza capace di compensare la passione, investire. Non si conosce il nuovo e il futuro che annuncia senza riconoscervi quello che è stato e l’ha preparato: se no, si soccomberà al cattivo vecchio o al cattivo nuovo o a tutt’e due.
Emanuele ha avuto tante date in cui scrivere la propria autobiografia, e riscriverla a ogni ulteriore tempo supplementare – “Io tutti i giorni scrivo qualcosa”, del resto. Ha potuto rivendicare di non esser mancato a nessuno dei funerali di coraggiosi combattenti uccisi dalla mafia dopo il primo anniversario di Portella della Ginestra, 1947. Ho appena riascoltato il suo discorso del 1° maggio 2019: “Compagni che siete morti qui, non vi abbiamo dimenticati”. Ha raccontato di sé poco più che ventenne, col peso della responsabilità della Cgil per l’intera Sicilia, quando gli operai occupavano il Cantiere di Palermo per 40 giorni e avevano di fronte la mafia delle assunzioni, quando gli zolfatari scioperavano per 60 giorni e i piccoli commercianti dei paesi facevano loro credito, e ha chiesto: come credete che potessi dormire in quelle notti? In quelle lotte in cui “si diventava uomini”, e questo resta, resta attraverso e oltre tutto quello che mi è successo dopo, la segreteria del Pci con Togliatti, deputato, senatore, direttore di giornali… “Questo resta”: nella vita di ciascuno resta, accanto al suo proprio passato, quello dei suoi simili e delle sue madri e dei suoi padri, quello che di loro ha scelto per sé, per fargli luce lungo la strada.
Caduti, grazie al cielo, i muri, c’è stata una corsa a farsi tutti nuovi. A sentire imbarazzo o fastidio per il passato. A trovare grossolana la distinzione politica fra sinistra e destra – la differenza pratica imperversava. A dire Vaffanculo, “ed ebbe il premio”. Emanuele è stato del Pci, è stato esemplare di un modo di essere comunista – ci furono modi pessimi, infatti. E’ stato libero, cordiale, nemico del bigottismo, è andato in galera per quello, e per amore. Ha amato la giustizia, odiato l’iniquità, anche quella che usurpa il nome di giustizia. E’ stato leale e fedele all’amicizia, e generoso con gli avversari. E’ morto due giorni prima del centenario del Congresso di Livorno da cui nacque il PCd’I, poco da celebrare, se non per le conseguenze allora imprevedibili cui anche lui appartenne. Ha avuto tanti veri amici, sono stato per tanto tempo uno di loro, è stato bello. Avevo una consuetudine con la piazza di Testaccio in cui abitava una bambina cara al mio cuore e abitava lui, come in un paese di vecchi e bambini, giornalaio, una libreria, mamme, bottegai. Lo scorso marzo, per il suo compleanno, 96 anni, scrissi dei pini domestici, gli ippocastani e i lecci della piazza. Uno di quei lecci, sopra il chiosco del fioraio, sporge la sua chioma rigogliosa fino ad attraversare la strada, così in alto da passare inosservata al traffico di sotto, e sfiorare i balconcini dei piani alti, dove abitava Emanuele. “Sono forse coetanei, il grande albero e lui. Due querce quasi centenarie, che si salutano in questa strana primavera”. Una se n’è andata, in questo strano inverno.
Adriano Sofri