8 Novembre, 2024
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Se il caso Lucano fa ancora riflettere

La richiesta di quasi otto anni di carcere (otto!) per Mimmo Lucano appare spropositata

«Le leggi vanno rispettate. Anche se non ci piacciono. La mia patria è l’Austria, sono nato austriaco e mi sento austriaco. Ma sono un cittadino italiano e, per battermi in nome della mia patria devo prima rispettare le leggi italiane». Così ripeteva Silvius Maniago, per decenni il patriarca combattivo, duro e venerato dei sudtirolesi. Per questo non gli piaceva Bossi quando teorizzava la rivolta fiscale lumbard: «Le tasse si pagano. Punto». E per questo, probabilmente, non gli piacerebbe Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace che in nome degli ideali di accoglienza verso gli immigrati, per nobili che potessero essere, si è tirato addosso l’imputazione di aver violato una lista di leggi e leggine.

Certo è, però, che comunque possa essere letta la sua vicenda politica, umana e giudiziaria che ha spaccato l’Italia tra chi ancora oggi lo vede come un mezzo eroe (sia pure un po’ «elastico» nella personale applicazione delle regole) e chi lo insulta come fosse un delinquente seriale (pur riconoscendo che non si sarebbe messo in tasca un centesimo), la richiesta di quasi otto anni di carcere (otto!) appare spropositata. Spropositata rispetto alle illegalità di massa tollerate (o peggio ignorate) non solo in Calabria, a troppe condanne assai benevole per vari sindaci e amministratori via via accusati di corruzione, concussione o voto di scambio.

Per non dire di chi come il banchiere Gianni Zonin, dopo 116 udienze processuali con ottomila parti civili, ha preso in primo grado sei anni e sei mesi (senza fare un giorno di galera, finora) per il crac da 6 miliardi di euro (sei!) della Popolare di Vicenza ai danni di 170mila risparmiatori finiti in parte sul lastrico. Per non dir della condanna per corruzione in atti giudiziari (un reato imperdonabile per una toga) inflitta mesi fa, nella stessa Calabria di Lucano, al presidente di sezione della Corte d’Appello di Catanzaro Marco Petrini: quattro anni e quattro mesi. Con l’attenuante di avere una «dissociazione psicogena». Dopo di che, scrive l’Ansa, lo stesso giudice autore della sentenza «ha revocato le misure cautelari» e «ordinato l’immediata rimessione in libertà» del collega e di un coimputato appena condannati. Viva la Giustizia, viva i giudici. Però…

 

( Gian Antonio Stella – Corriere della Sera)

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