4 Novembre, 2024
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Una favola nera per il DDL Zan: intervista a Maurizio Ravallese, regista del corto “Il Vestito”

Abbiamo intervistato Maurizio Ravallese, professore di latino e greco nonché regista del cortometraggio “Il Vestito”. L’opera è un intenso incrocio di destini: ad uno sposo appena abbandonato all’altare viene rubato un vestito dall’altro protagonista, un immigrato alla ricerca di un abito nuziale. Scoperto, il ragazzo dovrà vendicare l’uomo che ha derubato per espiare la sua colpa.

Non è un cortometraggio di denuncia sociale e nemmeno «la lacrimevole favola del migrante buono che fa fortuna»: è una vicenda di sentimenti che mira a dimostrare che i turbamenti dell’anima includono tutti, indifferentemente dal colore della pelle, dall’etnia e dall’orientamento sessuale. L’avvincente cortometraggio riverbera quindi un messaggio di universale umanità. Messaggio che viene accentuato anche dai minimi dettagli delle riprese: non vengono esplicitati nomi di città o fatti altri riferimenti specifici.

Il corto muove da un preconcetto ben radicato nella mentalità comune: quando si vede una macchina da cerimonia, la prima persona a cui si pensa è la sposa. Ma cosa succederebbe se all’interno del veicolo ci fossero due uomini? Una tematica che torna d’attualità con la fervente discussione sul DDL ZAN.

Candidato a Miglior Corto al Toronto International Nollywood Film Festival, l’importante kermesse canadese che celebra la diversità attraverso il cinema, il corto è stato premiato al Giffoni Young come miglior corto drammatico e in altri trenta festival, tra cui il Falcon di Londra, il Firenze Film Corti, il South African Film Festival, il Queen Palm Festival, il Buffalo film festival e il Reeling di Chicago.

 

Che lavoro c’è dietro questo successo? Da cosa è originato il desiderio di trattare proprio questo aspetto dell’attualità? Oltretutto, se ne ha riscontrate, quali sono state le maggiori difficoltà nella realizzazione del corto? E con quali criteri ha scelto gli attori?

Il corto nasce da una specifica volontà: quella di raccontare una storia d’amore di carattere universale, ma con un finale a sorpresa. La storia mi è venuta a partire da una vicenda realmente accaduta: mi trovavo ad un semaforo, mi si è affiancata una macchina da cerimonia bellissima, con dei fiocchi bianchi, e mi sono sporto per vedere la sposa – come tanti maschi italiani: un riflesso condizionato. Ma dentro la macchina c’erano due uomini, i quali, giustamente, mi hanno guardato un po’ storto, col sorriso sulle labbra, e a quel punto mi sono reso conto che anche io, come tanti, ero preda di un volontario tabù: associare direttamente una macchina da cerimonia ad una sposa. Ho scritto subito un corto, insieme ad Emanuele Pisano, che è l’altro sceneggiatore. La realizzazione di un corto è sempre il frutto, come qualsiasi film, di tante componenti: la sceneggiatura, gli attori, i registi, il montaggio. Questo film non aveva un budget elevato: e quindi è stata necessaria la collaborazione, anche a carattere amichevole, di tante persone. I cortometraggi non si fanno per guadagnare: hanno un mercato limitato all’ambito festivaliero. Ma c’è stata molta passione nella realizzazione di questo lavoro. Ho scelto Danilo Arena perché è un attore istintivo: mi piaceva la sua immediatezza e la sua capacità di calarsi nel personaggio; pur non essendo arabo, per interpretare questo personaggio ha addirittura frequentato una moschea, ha imparato delle preghiere: nella scena in cui, per esempio, prega al mattino – anche se non si sente – le sue parole sono veramente in arabo.

Il suo cortometraggio “Il vestito” è stato definito: “una favola moderna sul DDL Zan”, cosa ne pensa? Si aspettava che avrebbe avuto un ruolo anche abbastanza di rilievo su una tematica attuale così delicata quanto importante?

Non mi aspettavo, a dire la verità, che il corto diventasse una specie di icona sul DDL Zan, anche perché quando l’abbiamo realizzato la legge non era stata ancora proposta. Ma sono senz’altro felice che questo corto, che parla di sentimenti universali come l’amore, possa diventare un paradigma di questa proposta di legge sacrosanta.

Lei è dottore di ricerca in Filologia e storia del mondo antico, e docente di ruolo di latino e greco. È molto dedito però anche alla cinematografia; ha infatti lavorato come assistente alla regia in diverse produzioni televisive, ha diretto diversi videoclip musicali, ed è regista e sceneggiatore di cortometraggi, tra i quali i pluripremiati sono Miracolo in periferia, La terra degli sconfitti e Il vestito. Cosa ci può raccontare dei suoi inizi? Per riuscire ad impegnarsi in tali esperienze, al di fuori delle materie classiche, Lei ha seguito altri percorsi di studi?

La mia carriera cinematografica si affianca a quella di insegnante e di ricercatore universitario. All’età di diciassette anni, in seguito ad un guaio combinato a scuola, mia madre mi mandò, come punizione, a lavorare gratuitamente su un set cinematografico; fu un’esperienza talmente bella che decisi, negli anni successivi, di replicarla. Mi innamorai di questo mestiere conoscendo tante persone del campo, approfondendo i segreti e continuando – ancora adesso – a studiare, a vedere film, a cercare di capire come scrivere e come raccontare. Ogni anno passavo l’estate sui set, mentre invece d’inverno studiavo lettere antiche all’università. Presa la laurea, ho vinto il dottorato di ricerca, che mi ha portato anche a lavorare per un anno a Parigi, alla Sorbonne. Cinema, letteratura greca, letteratura latina e storia antica si intrecciano nel mio percorso: per esempio, ho potuto realizzare diverse consulenze per prodotti cinematografici in virtù delle mie conoscenze storiche; viceversa gli intrecci delle tragedie antiche mi hanno permesso di raccontare, nei miei cortometraggi, storie e paradigmi che derivavano appunto dalla letteratura antica. Per cui c’è sempre da imparare e c’è sempre la possibilità di far dialogare due campi così diversi come cinema e mondo antico.

Professore, le due carriere a cui Lei da tempo si sta dedicando sono state difficili da conciliare e adattare con gli impegni, dato lo zelo che entrambe richiedono? Può spiegarci il metodo con il quale riesce a destreggiarsi tra queste due carriere così impegnative e altrettanto importanti, sempre se ne ha uno?

È difficile conciliare le due carriere: nei due campi, lo ammetto, faccio salti mortali. Oltretutto è vero che la scuola e la ricerca mi impegnano soprattutto la mattina e la sera, però il pomeriggio c’è anche un’attività di distribuzione particolarmente importante, dato che io sono a capo di due case di distribuzione di cortometraggi e di documentari che si chiamano “Pathos Distribution” e “Siberia Distribution”. Oltre a tutto questo c’è anche la vita privata, ma “teniamo botta”.

Com’è nata la sua passione per il cinema?

La mia passione per il cinema è nata in famiglia: mio padre che mi raccontava le storie dei film che vedeva. Dopo abbiamo cominciato a vederli insieme: Sergio Leone, Martin Scorzese, Roberto Rossellini, Federico Fellini, Pietro Germi. La mia educazione cinematografica, dunque, è stata improntata da mio padre e prosegue ancora oggi: un regista non deve mai smettere di guardare e di rubare dagli altri.

La scelta di rendere noto solo il nome del signor Marco ha un significato nel cortometraggio?

Nessuno si aspetta che la sposa tradita in questo cortometraggio sia un uomo: è stata quindi una libera decisione quella di far venire fuori solo il nome “Marco”, proprio per dare rilevanza al fatto che si trattava di un uomo, che la sposa tradita era in realtà un individuo. È questo il vero punto di svolta del cortometraggio.

Qual è stata la scena più difficile da registrare?

La scena più difficile è stata senz’altro quella del pestaggio. Danilo Arena è un attore che non gradisce le controfigure: non vuole mai utilizzare protezioni, per cui gli attori che interpretavano gli scagnozzi e gli avventori del locale hanno dovuto far molta attenzione a non colpirlo veramente. D’altronde, Danilo si divincolava per rendere più credibile la scena: al punto che ha rimediato un calcio in pieno petto. Nonostante il dolore, ha continuato a recitare egregiamente.

In questo periodo di lockdown, Le è mancato lavorare sul set?

Sì, mi è mancato molto il set, anche se devo dire che il lockdown mi ha permesso di rallentare il  ritmo e di concentrarmi sulla scrittura di diversi progetti.

Ha qualche cortometraggio o progetti simili in serbo per il futuro? Ad esempio ha mai pensato di unire le sue due passioni: l’insegnamento e la cinematografia, magari coinvolgendo i suoi studenti?

Sì, ho in serbo due cortometraggi: uno di questi, che si chiamerà “Sir”, parlerà di un guaritore, che vive in mezzo alla montagna, dotato di poteri straordinari, ma affetto dalla cosiddetta maledizione del guaritore: non riesce ad utilizzare il proprio potere per salvare la moglie ammalata. Ma i miracoli sono doni ereditari.

Non ho mai pensato di coinvolgere i miei studenti: sul set serve una grande professionalità. È mia opinione che gli studenti debbano imparare, se vogliono fare cinema, buttandosi direttamente su un nuovo set senza conoscere nessuno e fare esperienza; però certamente quella dell’insegnamento e della cinematografia può essere una relazione da portare sicuramente nelle scuole, a beneficio anche dei miei studenti.

 

 

Giulia De Luca, Jacqueline Velia Guida, Giorgia Irimia, Martina Rosa

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