Quest’anno, 2021, ricorrono due anniversari; il primo, forse noto ai più, è la morte nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321 a Ravenna, in esilio, di Durante di Alighiero Alighieri detto Dante Alighieri; ben 700 anni fa).
Il secondo, forse noto ai meno, è la nascita il 21 gennaio 1921 del Partito Comunista Italiano- Sezione dell’Internazionale comunista, a Livorno dove, durante il XVII Congresso del Partito socialista Italiano, presso il teatro Goldoni, la corrente comunista guidata da Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini, abbandonò i compagni e si trasferì nel teatro San Marco dove fondò, appunto, il Partito comunista d’Italia, sezione della III Internazionale.
Questa doppia ricorrenza mette insieme idee e persone che, a prima vista, non sembrerebbero avere rapporti tra di loro: Dante, Marx, Gramsci; e il dolore per l’esilio, il ruolo civile della letteratura, la riflessione e la cultura come elementi di liberazione, la possibilità di un’umanità migliore (che Dante chiama la Salvezza)
Ovviamente, il sommo poeta Dante è punto di partenza di questa spigolatura: è letto ed amato sia da Marx che da Gramsci e, da quest’ultimo, è anche reinterpretato. Entriamo brevemente nel merito.
Dante – Marx
Carlo Marx nella prefazione alla prima edizione del libro I del Capitale scrive: ”Quest’opera della quale consegno al pubblico il primo volume, costituisce il seguito del mio scritto Per la critica dell’economia politica, pubblicato nel 1859. (…) Il detto « ogni inizio è difficile » vale per tutte le scienze. Perciò la comprensione del primo capitolo e specialmente della sezione che contiene l’analisi della merce presenterà maggior difficoltà degli altri. Però ho svolto nella maniera più divulgativa possibile (…) [Come] il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più definita e meno offuscata (…) in quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, loro sede classica è l’Inghilterra. (…) Ma nel caso che il lettore tedesco si stringesse farisaicamente nelle spalle a proposito delle condizioni degli operai inglesi dell’industria e dell’agricoltura o si acquietasse ottimisticamente al pensiero che in Germania ci manca ancor molto che le cose vadano così male, gli debbo gridare: De te fabula narratur (…)
Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segni il tuo corso, e lascia dir le genti!
Londra, 25 luglio 1867.
Karl Mar”
Nota. La frase De te fabula narratur significa è di te che si parla in questa favola ed è in una delle satire di Orazio. Questo modo di dire viene usato quando qualcuno, mentre si parla di lui o di qualcosa che lo riguarda, sembra non intendere.
Andiamo ora a leggere i versi relativi nel Canto V del Purgatorio (vv 10-18), dove Virgilio chiede a Dante di non distrarsi e di seguirlo senza preoccuparsi di quello che sente dire.
«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla»
Parafrasi per chi non è abituato a leggere la Commedia:
«Perché la tua mente (animo) si distrae (s’impiglia)», disse il maestro, «facendoti così rallentare (allenti) l’andatura (l’anda- re)? che t’importa (che ti fa) di ciò che si bisbiglia (pispiglia) alle tue spalle (quivi = lì)
Vieni dietro di me, e lascia pur parlare (dir) la gente: stai come una solida (ferma) torre, che, per quanto soffino i venti, non scuote (crolla) mai la cima;
poiché sempre l’uomo i cui propositi (pensier) nascono (ram- polla) uno sull’altro, allontana da sé (dilunga) la meta prefissata (segno), in quanto il nuovo pensiero (l’un) indebolisce (insolla) il vigore (foga) di quello precedente (de l’altro)»
Credo che si possa dire, al di la della non perfetta citazione, che comunque Marx avesse in testa Dante e avesse letto la Divina commedia con tanta attenzione da usare un verso per esprimere un suo pensiero.
Dante – Gramsci
Nei famosi Quaderni dal carcere (dei 33 quaderni pervenuti, 12 furono scritti fra il 1934 e il 1935, quindi fuori del carcere) e precisamente nel 4°, Antonio Gramsci scrive una riflessione sul Canto X dell’inferno ed, in particolare, su Cavalcante Cavalcanti, come già annunciato a pag.5 del 1° quaderno quando, dopo lunghissime richieste, era riuscito ad ottenere carta, penna e un tavolino in legno fatto fare a sue spese. Aveva chiesto anche «una Divina Commedia di pochi soldi» in una Lettera dal carcere dell’autunno 1926, indirizzata alla «Gentilissima signora» Clara, ma solo due anni dopo la cognata Tatiana potrà fargli avere «il Dante minuscolo hoepliano», con i volumi di Benedetto Croce La poesia di Dante (1921) e Poesia e non poesia (1923) insieme ad un libro Dante, Farinata, Cavalcanti del giornalista Vincenzo Morello, detto Rastignac. Il 26 agosto 1929 annuncia a Tatiana che […] verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di Benedetto Croce sulla Divina Commedia».
Infatti Gramsci vuole rovesciare la critica letteraria egemone di stampo crociano e in particolare la distinzione che fa Croce fra ‘poesia’ e ‘struttura’ dove quest’ultima è formata da materiale che fa da impalcatura lessicale e che serve a separare, nell’opera, la parte poetica. E così è nel canto di Farinata e Cavalcanti.
Ma per Gramsci questa architettura scenica: Farinata , il capo politico ghibellino superbo e fiero, che sta in piedi nel fuoco e si rivolge a Dante con parole altere; e Cavalcanti, in ginocchio che compare e scompare fulmineamente, scosso da violente emozioni paterne, non è come per Croce mero materiale costruttivo, o ‘struttura’ didascalica ma è grande poesia.
Siamo nel sesto cerchio, in cui sono puniti gli eretici, costretti a stare dentro a sepolcri scoperti e infuocati fino al giorno del Giudizio Universale, quando questi verranno chiusi.
Mentre Dante chiede a Virgilio se può parlare con alcuni di essi, da una delle tombe, esce Farinata degli Uberti che aveva sentito parlare toscano. I due iniziano a discutere in quanto di opposte fazioni: Farinata, con i Ghibellini, sosteneva la supremazia dell’impero sulla Chiesa mentre Dante, con i Guelfi, era favorevole ad un accordo con i pontefici. I Ghibellini vennero esiliati da Firenze per mano dei Guelfi. In seguito avvenne la scissione del partito guelfo in Guelfi Bianchi, gelosi dell’ indipendenza di Firenze di fronte all’ autorità papale, e in Guelfi Neri che avrebbero interamente asservito la città al Papa. Dante fu Guelfo Bianco e perciò fu condannato all’esilio nel 1302.
La discussione viene interrotta da Cavalcante de’ Cavalcanti, un altro dannato, che ha riconosciuto Dante e che chiede, piangendo, come mai suo figlio Guido, degno secondo il padre di compiere anch’egli un viaggio così eccezionale, non sia lì con loro.
Cavalcante chiama l’Inferno “Cieco /carcere” (“Se per questo cieco/ carcere vai per altezza d’ingegno”) e rivolge a Dante la domanda sul figlio Guido destinata a non trovare risposta: «piangendo disse: /mio figlio ov’è? /perché non è ei teco?”». Quando credette di capire, dal silenzio di Dante, che il figlio Guido fosse ormai morto, “supin ricadde e più non parve fora”.
Di contro Farinata “non mutò aspetto/né mosse collo, né piegò sua costa” di fronte al dramma paterno e annuncia a Dante il prossimo esilio.
Per Gramsci quindi è proprio la forza realistica e psichica dei sentimenti terreni: dolore, orgoglio, risentimento, ostilità, pietà (perché Dante chiede alla fine “Or direte dunque a quel caduto/che ‘l suo nato è co’ vivi ancor congiunto”) che permette al lettore l’atto di identificazione con i due opposti personaggi, atto tipico dell’arte.
La terza connessione dovrebbe essere a questo punto tra Marx e Gramsci … ma è troppo ovvia.