Che senso ha considerare “straniero” un ragazzino che parla sovente “romanaccio” (perché ha seguito i cinque anni di primaria in Italia e lì ha imparato il dialetto e non la nostra amata lingua) e italiano un ragazzino adottato da poco che al momento di italiano ha solo il cognome? Che senso ha negare la parità fra ragazzi che sono perfettamente integrati, anche se il cognome ha tante consonanti e poche vocali, da coloro i quali sono veri “stranieri”, anche se italiani di genitori italiani? Alla luce delle stolte polemiche di chi non ha altri argomenti, se non l’insulto di basso livello, per noi della “Melone” i ragazzi sono tutti “ragazzi”, senza altra distinzione.
In realtà ciascuno di noi è diverso da tutti gli altri, chi potrebbe negarlo? Il punto è che normalmente si categorizza per non ragionare. Per esempio, è molto più facile parlare dei francesi come “snob”, invece di considerare che i milioni di cittadini francesi sono diversi uno dall’altro, così come lo siamo noi italiani fra noi stessi; che ci sono nostri vicini di casa ultra snob, mentre ho conosciuto francesi di una umanità infinita. Categorizzare permette di pensare meno e fare meno fatica. Ma ragionare poco fa sì che si rischi fortemente di essere dominati senza fatica perché non ce ne accorgiamo.
Mi è capitato di leggere una nota indirizzata a un assessore che chiedeva fosse fatto uno strappo alla regola a suo favore e concludeva con un “qui si pensa sempre agli stranieri, per una volta pensiamo ai ladispolani!”. Già lo “strappo alla regola” richiesto è un insulto al prossimo: chiedere di avere un favore, significa pretendere di essere considerato superiore a qualcun altro che ha maggior diritto di noi, potendone calpestare la precedenza. Se salto la coda, intendo affermare che chi è stato in fila sinora vale meno di me. Ma allora quello strappo alla regola è una dichiarazione di puro razzismo. Lo straniero, o chi proveniente da un’altra città, perché dovrebbe avere un valore inferiore a quel “ladispolano”? Perché il rigore della legge non dovrebbe valere per lui, ma solo per gli altri? Il luogo dove si nasce permette forse di avere diritti in più? Il parlare una certa lingua invece di un’altra implica una qualche superiorità di merito?
Lo sciocco che usi le categorie per giudicare il prossimo e “autopremiarsi” in realtà corre il rischio gravissimo di essere a sua volta considerato una nullità da parte di qualcun altro che sia nato altrove o parli una lingua diversa. Parafrasando il compianto Luciano De Crescenzo, “è molto più facile di quanto si pensi trovare qualcuno che stia più a nord di noi, che immaginiamo di essere più a nord di tutti”.
In base a queste banali considerazioni per la nostra scuola non esistono pregiudizi su ladispolani, romani, italiani, francesi, bianchi, neri o a pallini blu. Ciò che distingue gli uni dagli altri è la singola personalità. Le regole del convivere civile valgono ugualmente per tutti. Ciò che viene premiato è l’impegno e l’amore per il prossimo. Null’altro.
Riccardo Agresti, preside