22 Novembre, 2024
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Fake news e il “caso Raiola”

Apprezzato come giornalista, ma anche e soprattutto come scrittore (è autore del miglior testo dedicato alla strage dello stadio Heysel -“Heysel: le verità di una strage annunciata”), Francesco Caremani ancor prima del clamoroso errore della stampa italiana legato alle condizioni di vita del procuratore sportivo Mino Raiola aveva sottolineato lo sbando di una categoria che punta alle urla e alla fretta di dar notizie senza monitorarne la veridicità. Riproponiamo, per gentile concessione dell’autore, il suo ragionamento sul tema.

Giornalisti che si strappano la camicia, altri che brandivano fruste, altri ancora con la bava alla bocca, letteralmente, perché la squadra del cuore (?) ha segnato o subìto una rete.

Questi sono solamente alcuni esempi, non in senso etico, di cosa fanno alcuni giornalisti (?) sportivi (?) in determinate trasmissioni televisive e, visti i tempi, non credo che questa situazione possa essere ulteriormente tollerata.

Esiste l’Ordine dei Giornalisti, il Consiglio di disciplina, il sindacato, l’Ussi, abbiamo un decalogo di comportamento, eppure non succede niente e si continuano a leggere, ascoltare e vedere cose che con il giornalismo sportivo non hanno, o non dovrebbero avere, niente a che fare.

Tanto per ricordare alcuni passaggi del decalogo: il giornalista sportivo tiene una condotta irreprensibile durante lo svolgimento di avvenimenti che segue professionalmente; il giornalista sportivo non usa espressioni forti o minacciose, sia orali che scritte, e assicura una corretta informazione su eventuali reati che siano commessi in occasione di avvenimenti agonistici; il giornalista sportivo conduttore di programma si dissocia immediatamente, in diretta, da atteggiamenti minacciosi, scorretti, litigiosi che provengano da ospiti, colleghi, protagonisti interessati all’avvenimento, interlocutori telefonici, via internet o sms.

E non credo vi sia altro da aggiungere.

Ricordo ancora il congresso che a Casale Monferrato elesse Luigi Ferrajolo presidente dell’Ussi, un passaggio generazionale, delicato.

Da allora la crisi economica ha colpito duramente la nostra categoria che, a mio avviso, ha reagito malamente vendendosi, soprattutto nel calcio, alla pancia del tifo peggiore, un esempio? La telecronaca del tifoso. Abbiamo seguito la polarizzazione sociale facendola propria, in un settore che è già polarizzato di suo e che certo non aveva bisogno di un’accelerazione in questo senso. Lo si è fatto con la convinzione di non perdere audience, lo si è fatto per pure ragioni economiche, svendendo ancora di più la professione e perdendo sempre di più il rispetto dell’opinione pubblica, nonostante i tanti bravi giornalisti sportivi che fanno il proprio lavoro egregiamente; peccato che nonostante siano maggioranza, o forse proprio per questo, non hanno la visibilità necessaria, rispetto a chi si fa chiamare giornalista ma si comporta come un cialtrone, come l’ennesimo fenomeno da baraccone che, soprattutto in televisione, funziona: sia a livello di audience che a livello economico.

Questo è un punto cruciale. Nessuno sano di mente si ridicolizzerebbe in diretta televisiva se non ne avesse un tornaconto economico, se non ci fosse una claque pronta a seguirlo, che sposta numeri, di conseguenza pubblicità, quindi soldi. Ergo, in una professione impoverita, dove tanti bravi giornalisti sopravvivono facendo bene il proprio mestiere c’è una minoranza che lucra sull’ignoranza e sulla malafede, barattando l’integrità di un’intera categoria, poiché il pubblico guarda passivamente e non differenzia, con più di 30 denari. Una cosa inaccettabile.

Oramai ho fatto il callo a tante cose in 25 anni di professione, dei quali 17 da freelance. Ai pezzi malpagati, alle collaborazioni che vanno e vengono, a mille difficoltà professionali e burocratiche (di chi ci dovrebbe agevolare), ma non posso tollerare, dopo avere fatto tanta fatica per diventare giornalista professionista, di essere accostato a chi si fa chiamare giornalista ma non lo fa.

Ci saranno pure quelli che diranno che l’Ordine è inutile, che queste sono battaglie di retroguardia, per poi scoprire che fanno i giornalisti beandosi di non esserlo e di non avere la tessera, troppo comodo, troppo comodo davvero. Capisco la disintermediazione, ne comprendo modi e tempi, e ho sempre detto che il giornalista è chi il giornalista fa, ma bisogna essere coerenti anche con questo, perché se si fa il giornalista si risponde alle regole della professione, altrimenti si scrive per sé stessi nella propria cameretta. A volte in questi anfratti si trovano i peggiori, quelli che sparano cannonate contro Ordine, giornalisti, ecc. solo per fare carriera sulle loro macerie.

La questione è semplice o sono giornalista io o lo sono loro, questi personaggi, non c’è alternativa. Alla quale si accompagna quella economica, i loro comportamenti sono premiati gli altri no, occupano spazi professionali mentre c’è chi esce perché spazio non ne ha. Inaccettabile per chi crede nella professione e nel giornalismo.

Attenzione, sbagliare si sbaglia tutti (io per primo), ma qui non siamo all’errore siamo alla consapevolezza del cialtronismo, alla fenomenologia da baraccone fatta professione. Qualcuno potrebbe dire: ma funziona, il pubblico li segue. Vero, tristemente vero, e non credo nemmeno che il giornalista abbia il dovere di educare l’opinione pubblica, la parola rieducazione mi fa venire brividi freddi, credo che l’unico dovere del giornalista sia informare e che per farlo debba essere messo nelle migliori condizioni. Che lo sport sia diventato anche infotainment ci sta, è un’evoluzione della narrazione sportiva, che però lo si faccia violando le regole stesse della professione no. Ritengo che non sia giusto, per tutti i motivi sopra elencati.

Quindi, come giornalista professionista, come iscritto al sindacato, come delegato regionale dell’Ussi toscana chiedo che gli organi preposti facciano il loro lavoro. Qualcuno dice chiudiamo quelle trasmissioni, io dico sanzioniamo i giornalisti che violano regole e decaloghi, ritiriamo le tessere, mettiamoli fuori dalla nostra categoria. Perché se non ne siamo capaci, se chi è preposto non lo fa o non potrà farlo, allora è inutile frequentare i corsi di deontologia professionale, ed è ancora più inutile richiamare i giovani a iscriversi al sindacato.

Conscio che se un giorno capiterà a me di sbagliare sarò facilmente richiamato e sanzionato, perché facente parte di quella maggioranza silenziosa che c’è, lavora, ma non si vede e non si sente, perché non urla, non sbraita, non si rende ridicola. Insomma noi che, nel nostro piccolo, difendiamo la professione rischiamo di essere indifesi da chi dovrebbe tutelarci e, nell’ipocrisia, tutela chi dovrebbe sanzionare.

Le scelte, o le non scelte, però, hanno un costo. Quelle scellerate degli editori le paghiamo da anni, adesso però stiamo pagando pure quelle di una categoria che non è mai stata comunità e che fatica a riconoscersi in norme e regole perché applicate solo contro alcuni. Credo che sia il momento di un’inversione di tendenza, di riprendersi da questo coma farmacologico, onestamente, con trasparenza, senza difese corporative, ma con la voglia di respirare un’aria diversa.

Se ne siamo capaci ne trarremo grandi vantaggi, altrimenti basta restare così sentendosi dire, per avere fatto un’inchiesta o criticato comportamenti disdicevoli, che siamo infami, giornalistucoli, ecc. Mentre i veri quaquaraqua sono osannati dalla massa, con il silenzio e l’inerzia, colpevoli, di chi dovrebbe prendere provvedimenti.

Francesco Caremani (Ussi)

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