Il 13 settembre all’età di 91 anni è morto Jean-Luc Godard, uno tra i più importanti esponenti della Nouvelle vague, facendo ricorso al suicidio assistito possibile in Svizzera. «Non perché fosse malato ma perché esausto. È morto serenamente circondato dai propri cari» dichiara la moglie Anne Marie Miéville. «È riuscito ad andare in fondo alle sue idee» in riferimento alla morte assistita, scrive Libération, precisando che lui stesso voleva che si rendesse noto quanto deciso. La notizia arriva nel giorno in cui Emmanuel Macron annuncia una consulta nazionale, con i cittadini, sul tema del suicidio assistito.
Nato a Parigi il 3 dicembre 1930 è stato uno dei cineasti più importanti della seconda metà del Novecento, estremamente colto, grande conoscitore della storia del cinema ed estimatore dei B-movies degli anni ’40 e ‘50, intellettuale proveniente dalla critica, nello specifico dalla rivista cinematografica francese Cahiers du cinèma (fondata da André Bazin) come i suoi compagni, denominati anche ‘i giovani turchi’. Questo movimento nasce da un gruppo di giovani deséngagé in seguito a una inchiesta sociologica sui costumi dei giovani nati tra la fine del 1930 e gli inizi del 1940, più ribelli con meno ideali politici. Il titolo dell’articolo era proprio Nouvelle vague da cui prende il nome il movimento socio-antropologico in cui questi giovani condividono età, passioni, amicizia e amore per il cinema che li porta a passare dietro la macchina da presa. Andavano contro una certa tendenza delle opere classiche del cinema francese (‘le cinema de papà’) ritenute troppo imbalsamate e prive di passioni ammirando, piuttosto, in modo maniacale il cinema classico americano, in particolare quello prodotto dallo Studio system. In questa ‘nuova onda’ – così è la traduzione letterale di Nouvelle vague – generata da questi giovani intellettuali francesi tra il 1958 e il 1960, il cinema di Godard, rappresenta la parabola più complessa e articolata. Le sue opere sono contraddistinte da marche stilistiche tra le più sperimentali del movimento, delle quali troviamo larga espressione nel suo primo lungometraggio À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro nella traduzione in italiano) del 1960, con Jean Paul Belmondo e Jean Seberg – attraverso i quali omaggia Viaggio in Italia di Rossellini – scritto da François Truffaut e Claude Chabrol altri due importanti maestri tra ‘i giovani turchi’. Il suo primo film, insieme ad altri – come Les quattre cent coups, I quattocento colpi del 1959 di François Truffaut – che diventeranno rappresentati della Nouvelle vague, è una critica agli artifici del cinema rendendoli continuamente palesi. La frammentarietà e la discontinuità narrativa, ricorrere al piano sequenza, alla ripetizione e agli spazi neri, la tecnica del collage con l’inserimento di materiali eterogeni, gli sguardi in macchina che rompono il processo di identificazione dello spettatore producendo uno straniamento brechtiano e il jump cuts (senza considerazione del raccordo di movimento e di sguardo) sono alcune delle scelte che permeano il cinema di Godard, conducendolo verso una soggettività che diventa perno del testo filmico esprimendo un costante autoriferimento autoriale. La sua filmografia, che va dal 1956/’59 – considerando i cortometraggi – ad oggi, è vasta e dalle innumerevoli sfaccettature: dal romanticismo (e non solo) ispirato ai gangster-movie di À bout de souffle arriviamo a una forte sperimentazione nelle sue opere più recenti, certamente di non facile comprensione, passando per quelle del periodo che si aggira intorno agli anni ’70 influenzate dai filosofi e con un segno marxista, militanti, alcune delle quali create insieme ad altri cineasti con cui fonda il Gruppo Dziga Vertov per un cinema collettivo che rifiuta il ruolo di autore (sostanziale variante a quell’egocentrismo autoriale che fortemente caratterizza le sue opere) e la gerarchia autoritaria che questo sottintenderebbe.
Tra le numerose candidature e gli altri premi vince l’Orso d’argento per il miglior regista nel 1960 per À bout de souffle, il Leone d’oro nel 1983 con Prénom Carmen e l’Oscar alla carriera nel 2010 che rifiutò di ritirare; le sue opere sono state molto amate dai registi del postmoderno. Quentin Tarantino ha chiamato la sua casa di produzione come uno dei suoi film, Bande à part del 1964, in questo lungometraggio troviamo la sequenza girata al Louvre dove i protagonisti corrono lungo gli immensi spazi del museo in seguito ripresa, nel 2003, da Bernardo Bertolucci in The Dreamers – I sognatori in cui i personaggi si identificano con quelli di Godard.
Che sia fatto di realismo estremo o palesata artificiosità, di citazioni di altre arti o di militanza, il prolifico cinema di Jean-Luc Godard resta, oltre la sua dipartita, di fondamentale importanza nella storia del cinema europeo.
Marzia Onorato
Redattrice L’agone