16 Luglio, 2024
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Oriolo Romano e il convegno dedicato al “linguaggio di genere”

Sabato scorso nella storica cornice della sala degli Avi, all’interno del palazzo Altieri situato a Oriolo Romano, si è svolto il convegno Linguaggio di genere – NON SOLO PAROLE, organizzato dalla Associazione AMORE È RISPETTO – Rete contro la violenza di genere A.P.S., il tutto alla presenza delle Istituzioni tra le quali il sindaco di Oriolo Romano Emanuele Rallo intervenuto nel dibattito. Il Convegno è stato aperto dai saluti della presidente dell’Associazione Anna Maria Nami che, introducendo l’importanza dell’argomento in questione, ha dato inizio a una condivisione di riflessioni da parte delle/degli esperti, frutto delle loro ricerche, che ha generato arricchimento e interesse nelle/nei presenti i quali e le quali in ultimo hanno partecipato a un dibattito con numerose domande. È stato spiegato che la discriminazione di genere avviene, in maniera insita o esplicitata, proprio attraverso un tipo di linguaggio radicato nella nostra società nel quale, spesso, neanche ci si accorge che sia presente violenza tanto è consolidato quel ‘modo’ di usarlo; questo ci rende, inconsapevolmente (nella migliore delle ipotesi) o meno, complici di dissimmetrie, di discriminazioni sessiste che danno valore a un genere più che all’altro o che non intendano superare il binarismo di genere. Scaturendo, peraltro in alcuni casi, errori grammaticali. Nel convegno, moderato per l’Associazione “Amore è rispetto” dalla dr.ssa Nadia Avenali, si è posta l’attenzione a come e quanto il linguaggio generi collegamento con le azioni e non sia solo estetica o forma e, conseguentemente, quanto sia importante una sensibilizzazione all’argomento in tutti quei contesti di divulgazione e formativi, per far si che si acquisisca consapevolezza e non si reiterino certe abitudini discriminatorie.

Abbiamo intervistato le/gli esperti presenti.

A Manuela Manera linguista, editor e docente, abbiamo chiesto di parlarci della necessità di scardinare le abitudini sbagliate.

Durante il convegno si è parlato della forza del linguaggio che crea ‘collegamento’ e che non è solo ‘forma estetica’, del sessismo linguistico radicato e del necessario superamento del binario di genere. Quali sono e, soprattutto quando più latenti, come scardinare alcune abitudini che creano un comportamento sbagliato?

 «È senz’altro difficile modificare le proprie abitudini, anche quelle linguistiche: le parole ci sfuggono quasi di bocca… spesso replichiamo frasi o modi di dire che abbiamo introiettato o sul cui significato (o storia) non abbiamo avuto modo di riflettere. Se ci accorgiamo di comunicare in modo sessista, facciamo in tempo a auto-correggerci, ma con serietà, con convinzione: senza battute o risatine che possono sminuire la scelta appropriata. E se invece è un’altra persona che ci fa notare che sarebbe opportuno esprimersi in altro modo, non arrocchiamoci ma proviamo a pensare al perché ci arriva quell’osservazione e da chi arriva: può essere un utile suggerimento! Se abbiamo sempre esclamato – con l’intenzione di fare un complimento – “è una donna con le palle” potremmo facilmente dire “è una donna determinata”, così come possiamo abituare la nostra mente a usare più parole quando salutiamo un gruppo misto esclamando un “ciao a tuttu, tutte, tutti”; non è poi così complicato ricorrere ai femminili in riferimento alle donne, per esempio: la medica, l’arbitra, la politica, la capitana, la direttrice, la ministra, la presidente…; ancora, le nostre e-mail collettive possono aprirsi con un “Cari amici”. Se cominciamo, un tassello dopo l’altro, a ricorrere a espressioni più rispettose verso tutte le persone, poi non potremo più farne a meno e a suonarci strano e insopportabile sarà quel maschile che, usato impropriamente, cancella tutte le altre soggettività».

Lorenzo Gasparrini è un filosofo, si dedica alla formazione su argomenti di genere e alla divulgazione di tali argomenti soprattutto rivolta a un pubblico maschile; con lui abbiamo posto l’attenzione ad alcune differenziazioni.

Nel suo intervento lei ha parlato di una differenza importante tra lo stereotipo e il pregiudizio e la stretta connessione che hanno, seppur in modo diverso, con la (non) consapevolezza di ciò che le parole esprimono. Potrebbe raccontarci questa differenza e l’importanza di divenire consapevoli di certi meccanismi insiti?

«Può essere utile distinguerli per comprendere come siamo condizionati da alcuni meccanismi sociali, riguardo le questioni di genere. Il pregiudizio è una informazione sbagliata che mi fa dedurre, arrivare a conclusioni e convincimenti sbagliati, cioè delle vere e proprie discriminazioni. Ad esempio, ancora molte persone credono che “in quei giorni lì” le donne siano incapaci di avere un comportamento sociale e personale corretto e ragionevole. Questo pregiudizio era anche nel nostro ordinamento, nel codice civile: fino agli anni ’60, infatti, per questo motivo era vietato alle donne l’esercizio di alcune professioni. Avere eliminato questa legge discriminante, e aver dimostrato scientificamente che il livello ormonale non altera le capacità sociali e logiche delle donne, non ha però del tutto fatto sparire questo tipo di discriminazione nella società.

Infatti, nel frattempo, quella idea sbagliata è diventata uno stereotipo: per molte persone non è più una “informazione” ma qualcosa che fa parte della cultura, della “normale” educazione di genere, quindi è un vero e proprio “filtro” con il quale il comportamento altrui (di una donna, in questo caso) viene giudicato senza neanche pensarci. “Si è comportata così, avrà le sue cose” e neanche ci si ragiona più, lo si prende come un dato naturale, ovvio, indiscutibile. Lo stereotipo cioè agisce a un livello più profondo, è nella percezione della realtà, non nei ragionamenti che facciamo su di essa. Per questo il pregiudizio può essere combattuto anche da soli, ragionando sulle fonti delle informazioni, informandosi meglio e di più; lo stereotipo si supera solo con un’azione educativa sociale, con il contributo di altri e altre che ci fanno accorgere di quando li usiamo più o meno inconsapevolmente».

Con la prof.ssa Filomena Taverniti, docente di lettere. Fondatrice del gruppo “Indici paritari. Più donne nei testi scolastici e un nuovo linguaggio” ci siamo soffermati sull’aspetto legislativo e sulla corresponsabilità, in fatto di linguaggio di genere, di ambiti specifici.

Lei ha parlato di scuola e di territorio, della loro corresponsabilità educativa. Cosa si sta facendo e cosa ancora potrebbe essere fatto, nei sopracitati ambiti, in tema di Linguaggio di genere? Come un intervento da un punto di vista legislativo potrebbe porre le giuste regole e la giusta attenzione?

«Al fine di creare quella comunità educante di cui parlano i documenti ministeriali come la direttiva Indire del 2015 è necessario innanzitutto riconoscersi come soggetti responsabili dell’educazione in ottica cooperativa. Gli accordi devono essere finalizzati alla presa in carico non solo delle povertà educative sul territorio ma debbono concorrere alla costruzione di buone pratiche e di una fitta rete di rapporti quotidiani con i diversi enti sparsi nella comunità sociale di riferimento. In particolare, la legge sull’educazione civica 92 del 2019 e conseguente D.M. n. 9 del 7 gennaio 2021 permettono l’avvio di collaborazioni scuola-territorio per l’attuazione di esperienze extrascolastiche di educazione civica. In questo senso gli enti di terzo settore possono svolgere davvero un ruolo cardine nel perseguimento di esperienze di apprendimento autentiche. Per la mia esperienza sono molto utili progettazioni istituzionali calate nel territorio che abbiamo come fine educativo quello di dare voce alle giovani generazioni sul tema della discriminazione: ragionare sugli stereotipi veicolati dai media a livello locale, sollecitare proposte di confronto e soluzioni possibili. Attuare con l’aiuto di ragazzi e ragazze regolamenti comunali che promuovano il linguaggio di genere e una lingua ampia ed estesa».
Marzia Onorato
Redattrice L’agone

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