Il 25 settembre si è sancita la netta vittoria della destra sulla coalizione di centro-sinistra guidata dal Partito Democratico.
Sapevamo che Enrico Letta e i suoi non partivano di certo avvantaggiati, e ci aspettavamo anche una vittoria di Fratelli d’Italia, ma un distacco così netto dal partito di Giorgia Meloni ha confermato un vero e proprio tracollo del PD, forse l’ennesimo.
Da giorni si parla di rinnovamento, di un cambiamento netto e radicale che possa ridare vita a un partito che per anni ha rappresentato l’establishment di questo Paese; un colosso che a sinistra impedisce la crescita di nuove idee spostando sempre più i delusi dalla politica verso la destra sovranista.
Stop ai partiti forti
Nell’epoca in cui la politica non esprime più partiti forti e ben strutturati, ma alimenta feroci personalismi, il PD – che di certo non ha smentito questa tendenza con le sue infinite correnti interne – ha la possibilità di vantare importanti origini provenienti dal secolo scorso, ma che spesso tende a dimenticare se non addirittura a smentire; mentre la Meloni e i suoi, il proprio albero genealogico lo hanno mai voluto rinnegare fino in fondo, basti pensare al simbolo che all’interno racchiude ancora la fiamma tricolore del vecchio Movimento Sociale Italiano.
Mancanza di idee
La mancanza di un’idea chiara di come si vorrebbe questo Paese e questo mondo e di una leadership forte in grado di parlare alle masse e ai lavoratori (quelli che il PD dovrebbe rappresentare) hanno reso il Partito Democratico un partito farraginoso, per nulla dinamico e assente dalle strade, dai quartieri e dai luoghi di lavoro.
Fin dalla sua nascita questo partito ha deciso di intraprendere un viaggio ambizioso – ovvero quello di racchiudere dentro di sé la maggior parte delle forze progressiste di questo Paese – ma con una bussola rotta e una cartina al contrario, non sapendo mai se girare a destra o a sinistra.
La storia
Il PD nasce nel lontano 2007 dall’unione dei Democratici di Sinistra (di Veltroni e D’Alema) e della Margherita di Francesco Rutelli: i post-comunisti e gli ex democristiani si stavano un unendo. Ma come è possibile che i rivali di un tempo si stavano unendo in una strana alleanza progressista?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un ulteriore passo indietro chiedendoci: “Che fine avevano fatto i comunisti italiani dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica?”.
Il 1991 è stato probabilmente un anno cruciale per la politica italiana, che letteralmente ha cambiato faccia nel giro di poco tempo: in quell’anno gli stravolgimenti passarono da destra a sinistra con lo scandalo di tangentopoli e la caduta del mondo comunista, che ha messo in discussione anche il più grande partito comunista d’occidente, il Pci, che si ritrovò stretto in una morsa e costretto a cambiare nome, sotto la volontà del segretario Achille Occhetto, in PdS (Partito Democratico della Sinistra), poi Ds ed infine PD
La storia del partito comunista italiano non è di certo breve ed è sicuramente affascinate, segnata da eventi storici sorprendenti e drammatici e da personalità incredibili da un fascino ed un carisma unico.
Basti pensare a chi furono i fondatori del PCI nel lontano 1921 – o meglio del PCD’I, partito comunista d’Italia, questo il nome originale -, ovvero Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti: il primo uno dei più grandi pensatori e teorici del marxismo del 900 che fu incarcerato durante il regime fascista; il secondo uno delle più grandi menti politiche del dopo guerra, protagonista della “svolta di Salerno” durante la seconda guerra mondiale, alto dirigente del Commintern e padre costituente.
Il PCI nel corso della seconda metà del novecento è stato uno dei protagonisti della prima repubblica, portando avanti battaglie per i diritti sociali e civili, stando sempre al fianco dei lavoratori e compiendo delle scelte non di poco conto, mettendo da parte le teorie più rivoluzionarie e partecipando il più possibile allo sviluppo democratico dell’Italia repubblicana, riuscendo a raggiungere un consenso di quesi il 40% sotto la guida di uno dei più iconici ed amati leader politici italiani, Enrico Berlinguer.
Dal 1972 al 1984 (anno della sua prematura scomparsa) Belringuer sempre li, a Roma, al secondo piano di Via delle Botteghe Oscure, ha saputo declinare il comunismo all’interno della liberal democrazia e della società italiana, cercando sempre un clima di collaborazione fra quelle che egli definiva le “correnti popolari” di questo paese, ovvero il comunismo, il scialiamo ed il cattolicesimo.
La genuinità di quest’uomo, spesso descritto sempre imbronciato e silenzioso, la sua fede verso gli ideali di libertà, pace e giustizia sociale non sono mai stati messi in discussione, ma il segretario Berlinguer è riuscito a far arrivare la sinistra italiana e il comunismo ai suoi massimi storici, non solo per queste eccezionali virtù (che troppo spesso mancano ai politici di oggi) ma anche per la sua indiscussa genialità politica.
Ce ne sarebbero tanti di episodi in grado di dimostrare le sue capacità ma è uno forse il più importante che tutti dovremo ricordare.
Siamo nel lontano 11 settembre 1973, dall’altra parte del mondo in Cile arriva il colpo di stato a guida americana del generale Augusto Pinochet, che mette fine al governo democratico del socialista Allende.
Vi starete sicuramente chiedendo cosa centrasse il segretario del Partito Comunista Italiano con tutto questo. Ebbene Berlinguer rimase profondamente colpito, poiché Allende aveva una linea politica non troppo lontana dalla sua, ovvero portare il paese verso il socialismo ma senza una rivoluzione violenta.
Berlinguer decise di illustrare la sua posizione e si suoi pensieri in un saggio pubblicato in tre articoli sulla rivista “Rinascita”, dal titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, ed è da queste righe che inizia a nascere quello che meglio conosciamo come compromesso storico.
Berlinguer nei tre articoli prende atto di come anche nel caso in cui le forze di sinistra raggiungessero la maggioranza, sarebbe impossibile governare un paese come l’Italia ed è qui che teorizza un compromesso, un accordo fra le forze che raccolgono la grande maggioranza del popolo italiano.
Secondo il segreatrio il PCI deve collaborare con tutti i partiti di massa ed in particolare con il suo storico rivale, la Democrazia Cristiana.
La portata della proposta di Berlinguer è straordinaria: sfidare in Italia gli equilibri della guerra fredda.
La linea del PCI non piace ai sovietici ed il coraggio di Berlinguer lo vediamo nei fatti: il 3 ottobre in visita al partito socialista più filo sovietico dell’epoca, quello Bulgaro, Belringuer subisce un attentato: un camion colpisce l’auto su cui sta viaggiando il segretario, il quale però riesce a sopravvivere illeso all’impatto, mentre l’interprete che lo accompagnava muore sul colpo.
Se vogliamo vedere il PD come un continuo del PCI, di segretari alla guida della sinistra da Berlinguer in poi ce ne sono stati fin troppi.
Di quel 37% ne è rimasto ben poco, i tempi sono cambiati ma le battaglie forse sono rimaste le stesse: lavoro, diritti, giustizia sociale, pace e libertà.
Da Enrico siamo arrivati oggi ad un altro Enrico, non più Berlinguer ma Letta.
Il segretario Dem è arrivato a gestire una situazione di certo non facile: la crisi pandemica, la guerra e la costante ascesa della destra.
Non è di certo nostra volontà fare un confronto fra i due segretari, sarebbe inutile e anacronistico.
Letta si distingue sicuramente dai suoi rivali a destra per una certa professionalità e serietà (ricordiamo essere un professore di una delle università più importanti al mondo), ma per stare al fianco delle persone, ai lavoratori e ai discriminati serve ben altro.
Dove sono finiti la forza, la leadership e la caparbietà ed il coraggio unito ad uno astuto pragmatismo per stare vicini a chi voce non ne ha?
Simone Savasta
Redattore L’agone
Libro consigliato sul tema: “Le Metamorfosi” di Luciano Canfora.