Si conosce Pier Paolo Pasolini scrittore, cineasta ma meno il pittore. Le sue citazioni di opere d’arte pittoriche nei suoi film, con vere e proprie composizioni di quadri, sono ben note; il tableau vivant citazione del ‘Trasporto di Cristo’ opera del Manierista Pontormo ne “La ricotta” – episodio all’interno di “Ro.Go.Pag.” – e i riferimenti alle Tele del Mantegna in “Mamma Roma” nella sequenza sul finale con la morte di Ettore in prigione (a loro volta citata da Ingmar Bergman nell’incipit di “Persona”), ne sono un esempio. Le opere cinematografiche di P.P.P. restituiscono ecletticità e i riferimenti alla pittura sono espressione della sua ampia cultura. Approfondendo la conoscenza dell’artista, troviamo, oltre alla passione per la pittura, anche la sua vera e propria capacità di dipingere. Ne parliamo con Mimma Montorselli, costumista Rai e diplomata in Scenografia e Costume per lo Spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Firenze con una Tesi sul parallelismo tra le opere cinematografiche di Pasolini e la pittura.
Attualmente a Roma sono presenti le mostre “Tutto è santo – Il corpo veggente” al Palazzo delle Esposizioni (fino al 26/02/23 salvo proroghe) e “Pasolini pittore” alla Galleria di Arte Moderna di Roma Capitale in via Francesco Crispi (fino a 16/04/2023 salvo proroghe), entrambe iniziate nell’anno – concluso da poco – del centenario della nascita. Quest’ultima ci mostra il Pasolini pittore, come detto meno conosciuto; Mimma, cosa ci può dire a proposito dell’esposizione e di questo aspetto meno conosciuto dell’artista Bolognese?
«La passione di Pier Paolo Pasolini per la pittura nasce intorno agli anni 1941 e 1942 quando seguiva le lezioni di Storia dell’Arte dello storico e critico d’arte Roberto Longhi all’Università di Bologna.
Longhi rappresenta per Pasolini un vero e proprio Maestro che, introducendolo alle opere dei maggiori artisti italiani dal Duecento al Cinquecento, influenzò tantissimo anche il suo cinema. Gli esempi sono molteplici: la plasticità dei corpi e delle ambientazioni nelle borgate romane in Accattone (1961) ricordano le tele del Masaccio, accentuate dagli espressivi chiaroscuri; la scena della morte di Ettore in Mamma Roma (1962) rimanda al Cristo morto del Mantegna, avvolto in una luce caravaggesca. Come pure la scena del banchetto nuziale, sempre in Mamma Roma, rimanda a L’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Nel secondo tempo del Decameron (1971) l’apparizione onirica di Pasolini ricorda il Giudizio Universale di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova, mentre P. Bruegel il Vecchio ispirò i Racconti di Canterbury (1972) e Giotto, Duccio di Buoninsegna, Piero della Francesca riecheggiano nelle scene de Il Vangelo secondo Matteo (1964).
La mostra “Pasolini pittore” parte dagli inizi pittorici di Pasolini che vanno di pari passo con le sue prime prove poetiche in friulano. Casarsa, in Friuli è il paese d’origine della famiglia materna di Pasolini, i Colussi, e viene da lui stesso definito “il luogo dell’anima”. È qui che nascono i suoi primi componimenti poetici, Poesie a Casarsa (1942) e i suoi primi quadri, ritratti e raffigurazioni di corpi, maschili e femminili, che rievocano il suo mondo familiare e le sue amicizie. Mischia tempere, amalgama pigmenti, adopera inchiostri, sperimenta pastelli e matite grasse dal tratto materico e voluttuoso, sovrappone terriccio a china. Addensa colori su fogli e tele, pur non disdegnando atteggiamenti avanguardisti che lo portano a usare carte da lucido e cellophane, probabilmente sotto l’influenza del movimento della Bauhaus e del Futurismo di inizio ‘900. Sono esposte anche nature morte e paesaggi rurali friulani dal sapore fortemente intimista, che documentano l’eccezionale abilità artistica e la sperimentazione del colore e della tecnica messa in atto da parte del giovane Pasolini.
Per molti anni, anche se in modo saltuario, Pasolini è stato attratto dall’idea di diventare pittore, unendo l’attività pittorica a quella poetica. “Cominciò a dipingere a Casarsa nell’estate del 1941: quadri dipinti a olio e con acquaragia, secondo le antiche ricette della pittura impressionista, che si ispiravano al mondo friulano; come un vero vedutista usciva di casa con il cavalletto e la cassetta dei colori legati alla canna della bicicletta e si inoltrava nei campi che circondano il paese”. (Nico Naldini, 1991).
“Bisogna inventare nuove tecniche – che siano irriconoscibili che non assomiglino a nessuna operazione precedente. Per evitare così la puerilità e il ridicolo. Costruirsi un mondo proprio, con cui non siano possibili confronti. Per cui non esistano precedenti misure di giudizio. Le misure devono essere nuove, come la tecnica”. (Pier Paolo Pasolini, Teorema 1968).
Un’importante sezione della mostra è dedicata all’autoritratto e al ritratto, generi pittorici molto amati da Pasolini. In esposizione troviamo quelli che potremmo considerare i “ritratti dell’anima”: quelli familiari – il cugino Nico Naldini, la madre Susanna, la cugina Franca – e la serie legata ai protagonisti del mondo artistico di Pasolini, come quelli di Ezra Pound, Roberto Longhi e Maria Callas, come pure quelli del suo mondo cinematografico con Ninetto Davoli, Franco Citti e Laura Betti, che danno vita a una “mostra nella mostra”, grazie a un’attenta ricostruzione delle fasi di realizzazione e delle potenzialità d’investimento creativo e tecnico di Pasolini. Il segno è vibrante e intenso restituendo la personalità e l’espressività dei soggetti ritratti.
Il forte interesse per la figura di Roberto Longhi porterà Pasolini a chiedergli di fare da relatore alla sua Tesi di laurea incentrata sulla pittura italiana del Novecento, da Carlo Carrà a Giorgio Morandi e Filippo De Pisis, da lui molto amati. Queste influenze le ritroviamo negli autoritratti presenti nella mostra. L’individuo è al centro delle sue riflessioni, come nell’Autoritratto con fiore in bocca (1947) in cui ritrae sé stesso con un volto che sembra suggerire la caducità della vita con accenti di pennellate bianche che rimandano all’influenza della pittura espressionista e a una iconografia vagamente post-cubista, arricchite da particolari che diventano firme d’autore: la vecchia sciarpa colorata, i fiori in bocca, i colletti di camicia, gli occhiali a farfalla.
La pittura di Pasolini, comunque, non è di maniera, egli non dipinge per un pubblico o per ricevere un plauso accademico, ma dipinge per sé stesso, per fissare sulla tela o sulla carta, con tempera, olio, china, pastello o carboncino, quei pensieri cui dava forma attraverso le parole, man mano che il suo intelletto raggiunge la maturità e si relaziona con il mondo».
La capacità pittorica unita alla grande formazione culturale in Storia dell’Arte di Pasolini, volendo entrare nel vivo del suo lavoro sui costumi, in che modo e quanto ha avuto un ruolo nella ricerca dell’espressione artistica di Pier Paolo Pasolini cineasta? Mi riferisco alle citazioni raffigurative in cui c’è una palese ricercatezza raffinata degli abiti sia come rappresentazione raffigurante che, più in generale, nella funzione del costume nelle opere audiovisive dell’artista?
«Pasolini si avvicina al cinema dopo aver affrontato tutte le forme di scrittura, dalla poesia al giornalismo; inizialmente considera la cinematografia come una variante letteraria per poi rendersi conto che il cinema è una tecnica a sé, una vera e propria lingua.
Disse: “Ho pensato quindi in maniera forse un po’ avventurosa, di passare al cinema per abbandonare l’italiano. Cioè per fare una specie di rinuncia, di rinnego”. Pasolini non era un cinefilo; quando si trovò per la prima volta su un set, davanti a lui non c’erano attori professionisti ma persone comuni e come aiuto regia scelse un aspirante poeta di 21 anni.
È così che re-inventa il linguaggio cinematografico, fondendo nel suo “Cinema di poesia” la pittura, le lettere e la stessa poesia. Egli vede il Cinema con gli occhi di un pittore, non a caso i riferimenti a cui si ispira discendono dai ricordi delle lezioni con Longhi all’Università di Bologna. Nelle sue rappresentazioni cinematografiche la disposizione degli oggetti e delle persone nello spazio rimanda alla composizione pittorica, a un certo rigore e soprattutto a una tecnica di regia nella quale i movimenti della macchina da presa sono limitati. Noti esempi filmici di citazione pittorica sono i tableaux vivants che riproducono le opere di due pittori Manieristi: la “Deposizione dalla croce” di Rosso Fiorentino e “Il trasporto di Cristo” di Jacopo da Pontormo. I costumi di queste rappresentazioni sono opera del grande costumista Danilo Donati, che creava senza usare schizzi dettagliati, né figurini preliminari, anzi, non disegnava mai ma appuntava le idee su fogli di carta.
Nella creatività di Donati, Pasolini riconobbe la capacità di cogliere con profonda sensibilità le proprie esigenze estetiche e soprattutto apprezzò la grande creatività che il costumista dimostrava nella sperimentazione e nell’uso di materiali inconsueti. Piero Farani, che con il suo leggendario atelier realizzò i costumi ideati da Donati e collaborò con lui a tutti i film di Pasolini ha dichiarato: “in Danilo Donati c’è sempre l’invenzione, anche quando rifà il passato”.
Nelle costruzioni del Rosso Fiorentino e del Pontormo una delle componenti fondamentali era il panneggio degli abiti, come racconta Farani: “i costumi erano panni drappeggiati retti sotto con fil di ferro”. Il tessuto (taffetà tinto) veniva trattato perché assumesse le pieghe come apparivano nei dipinti che fungevano da modelli. Farani inventò con Donati una macchina per plissettare il tessuto, insieme costruirono un telaio arcaico per tessere trame “tribali” che tingevano, come lui stesso diceva: “i tessuti in grandi pentoloni bollenti con colori inusitati”. Fin da questo primo film, la ricerca dell’arcaicità della materia, che Pasolini privilegiava e voleva catturare con la macchina da presa, si coniugava quindi alla sperimentazione.
I costumi che ricoprono i corpi dei personaggi pasoliniani sono come apparizioni di figure che hanno un carattere sacrale e religioso e costituiscono una componente essenziale del loro mistero. Questo anche perché Pasolini filmava oggetti e costumi realizzati manualmente ed erano esemplari unici, non riproducibili in serie. Sacrale e unico è il costume di Medea (1969) interpretata da Maria Callas, che ricorda gli abiti da festa folkloristica sarda, ideato e creato dal costumista Piero Tosi.
Si tratta di una pesante veste scura da sacerdotessa, con un orlo blu, impreziosita da immagini e decorazioni che rimandano ad un mondo arcaico e tribale; il collo è adorno di collane e ciondoli. Il costume conferisce alla Callas una fissità e ieraticità da sacerdotessa.
“I costumi sono inventati quasi arbitrariamente” – affermava Pasolini – “Ho consultato opere sull’arte azteca, sui Sumeri, altri provengono direttamente dall’Africa nera perché la preistoria è stata praticamente la stessa ovunque. E avrei voluto insistere su questa linea, rendere i costumi ancora più arbitrari e preistorici, ma non ho avuto tempo per approfondire”.
Uno degli aspetti più spettacolari dei costumi di Medea, realizzati dal grande Piero Tosi, è caratterizzato dalla materia dei tessuti utilizzati: il cotone grezzo e sfilacciato veniva ritessuto insieme a stracci strappati, si utilizzavano materiali poveri che venivano plissettati a mano e bagnati con amido o tinti in vari colori e lasciati essiccare al sole come facevano gli Egizi. Lentamente il calore scavava il tessuto, che diveniva un plissé irregolare simile alle sculture antiche.
I costumi di Medea e Chirone si mostrano come opere scultoree che non consentono un contatto, ma impongono una distanza come dal sacro o dal mito.
La follia artistica di Danilo Donati riuscì a materializzare l’idea pasoliniani di bellezza lontana dal consumismo borghese della produzione industriale, per cui ogni pezzo è un esemplare unico. Il lavoro manuale dell’artista-artigiano non è compatibile con la riproducibilità seriale. Donati lo dimostra sperimentando materiali diversi sulle stesse forme. Sono opere artistiche e concettuali capaci di assecondare la volontà del regista, funzionali alla costruzione del personaggio seppure del tutto inventati, sempre indifferenti all’accuratezza storica ma capaci di creare una stretta aderenza visiva al periodo esaminato in un determinato momento. Una visione condivisa fra regista e costumista, che si concretizza grazie alla collaborazione di artigiani come la Sartoria Farani e il Laboratorio Pieroni. Da questa collaborazione nascono capolavori sia di costumi che di cappelli, innumerevoli sono le forme realizzate con i materiali più disparati, come ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), film per cui D.Donati realizza, da forme in legno, i cappelli-scultura dei sacerdoti.
La creatività e il talento di questi grandi costumisti, uniti alla sensibilità e al genio di Pasolini hanno reso possibile la magia.
I costumi di ogni singolo personaggio del cinema pasoliniano sono carichi di intensa espressività, fanno parte di un mondo visionario e distaccato che sembra lontano ma allo stesso tempo ci coinvolge fino a metterci di fronte all’ineluttabilità del nostro destino».
Continuando a raccontarci del suo fantastico mondo dei costumi, e di quello che hanno significato nel cinema di P.P. Pasolini, cosa ci può raccontare in quanto a ricerca, rapporti umani e professionali e di ciò che si cela dietro questo enorme lavoro?
«Nella filmografia pasoliniana si celano la professionalità, l’amore per l’arte, la solidità dei rapporti umani e la fiducia che Pasolini aveva nei confronti di tutti i suoi collaboratori. Sono esemplari i racconti dei grandi costumisti che hanno collaborato ai suoi film e che ci restituiscono un ritratto particolare del grande cineasta.
Il costumista toscano Piero Tosi racconta: “Era veramente difficile parlargli. Non si apriva, era avaro di parole, quasi timido, mi insegnava semplicemente di non bloccarmi, di non procedere per schemi, il che era comunque impossibile vista l’assenza di comunicazioni dirette. Per la verità, quel poco che riuscivo a strappargli erano riferimenti tra i più disparati: dagli Ittiti a Sumeri, fino al Rinascimento di Piero della Francesca e Mantegna. E soprattutto il retaggio delle tradizioni popolari: Messico, Marocco, Perù e, perché no, la Turchia o la Sardegna. Quando gli portavo i miei bozzetti faceva delle smorfie, perciò smisi di farne e cominciai a elaborare direttamente dei prototipi per potergli mostrare che cosa veniva fuori dalla fusione o guazzabuglio di tutti quei mondi primitivi. E finalmente il nostro rapporto si sbloccò”.
Con il grande costumista Emiliano Danilo Donati, che Pasolini incontrò nel 1962, si instaurò un sodalizio che durò oltre un decennio, fino alla morte tragica e improvvisa dello scrittore-regista avvenuta tredici anni più tardi. Morte che per Donati (come ha raccontato egli stesso) segnò la fine di un’epoca della propria storia personale. Nel 1962 Donati lavorava come costumista per il cinema già da tre anni. Con la loro prima collaborazione ne La ricotta (1963) nacque un rapporto di solida fiducia che lo ispirò nella realizzazione di meravigliosi costumi.
“Pasolini non lo conoscevo, ma avevo letto tutto di lui, lo ammiravo profondamente. Un giorno mi telefonarono dalla produzione e mi dissero che voleva incontrarmi per i costumi di Teorema. Quando venne da me, ero emozionatissimo. Lui non fece il nome dell’attrice, disse solo: – Maestro, non potrà mettere i suoi capolavori, è una donna borghese -. Tornò dopo due giorni con la scaletta del film e mi rivelò che era Silvana Mangano. Provai una gioia immensa: – Posso rivelarle un segreto? – gli risposi – Avevo due desideri nella vita, conoscere Pasolini e vestire la Mangano -. E lui: – Ogni desiderio che lei culla nel cuore con amore e con un’ambizione sua, segreta, prima o poi si avvera. Ma attenzione, perché vengono anche i desideri nefasti -. Diventammo amici”.
Questo è il racconto del grande costumista romano Roberto Capucci, che ricorda: “Nel mondo del cinema, dove c’è violenza, prepotenza, Pasolini era una persona eccezionale, educata, silenziosa. Mi ricordo quando Pasolini mi chiamava per chiedermi come andava con i costumi. – Benissimo – gli rispondevo – ma fra me e la Mangano ci sono silenzi abissali -. E lui: – Rompa il ghiaccio, Capucci, perché è timida -. Quando è successo ho scoperto in lei un essere umano meraviglioso. Al cinema perdeva tanto, nella vita c’erano i suoi silenzi, i suoi occhi enormi, sgranati, la sua educazione, la gioia di aiutare gli altri. Teorema mi ha crocifisso, dopo quel film non ho più accettato costumi per il cinema. Mai più si sarebbe verificata quella magica coincidenza, un regista e una donna che amavo. Io non credo che le cose si ripetano nella vita con la stessa intensità. C’è un solo amore, una sola emozione. Ringrazio Dio per questo incontro”.
A conclusione posso dire che Pier Paolo Pasolini è stato e rimarrà per sempre l’intellettuale che più di tutti ha creduto nella necessità di comunicare e di parlare con la sua opera delle persone e alle persone. Non soltanto attraverso la sua poesia, i suoi scritti, i suoi memorabili film, ma anche mediante un percorso critico articolato con pazienza e affidato con abilità a quei mezzi di comunicazione di massa che lucidamente contrastava.
Pasolini ha scelto di gettare il proprio corpo direttamente nella lotta e anche per questo è da considerarsi un poeta e un intellettuale civile che con il suo pensiero visionario e impegnato riesce ancora oggi a sorprenderci per l’intensità e la capacità di interpretare il tempo che stiamo vivendo.
Mai un poeta, uno scrittore, un regista, un intellettuale, è stato così corpo e incarnazione della parola, come Pier Paolo Pasolini».
Marzia Onorato
Redattrice L’agone