(Intervista alla dottoressa Adelia Lucattini) Anche quest’anno, l’Oms ha lanciato la campagna “Close the Immunization Gap”, slogan che avrà il suo apice nella settimana mondiale dell’immunizzazione 2023, che si celebra dal 24 al 30 aprile. La settimana è promossa per sensibilizzare popolazione, operatori sanitari e decisori sull’importanza dei vaccini in tutte le fasi della vita e si propone di mettere in evidenza la necessaria azione collettiva per promuovere l’uso dei vaccini al fine di proteggere persone di tutte le età da alcune malattie. La settimana è sostenuta da partner nazionali e internazionali, tra cui il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia e il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. L’agenzia italiana del farmaco si è associata alla campagna chiarendo che lo scopo è di aumentare gli sforzi per garantire un’immunizzazione quanto più completa a livello nazionale e mondiale, promuovendo il messaggio centrale che l’immunizzazione di ogni bambino è di vitale importanza per prevenire malattie e proteggere la vita. Obiettivo centrale è aumentare la copertura vaccinale della popolazione e diffondere la consapevolezza sull’importanza della vaccinazione tra genitori, i caregivers, gli operatori sanitari, i decisori e i media. Pone, inoltre, l’accento sulla necessità di proteggersi con i vaccini nel corso di tutta la vita. Fermo restando, la ricerca di nuovi vaccini per combattere il covid-19 e altre malattie, per l’Oms, rimane la necessità di garantire che le vaccinazioni di routine non vengano perse. Molti bambini non sono stati vaccinati durante la pandemia da covid-19, lasciandoli a rischio di malattie gravi come difterite, morbillo, poliomielite. La situazione, inoltre, si è aggravata a seguito dell’arrivo dei profughi in fuga dalla guerra in Ucraina, dove le campagne di vaccinazione di base erano appena iniziate prima dello scoppio della guerra. La disinformazione che si diffonde rapidamente sul tema delle vaccinazioni e che impropriamente le associa anche alle Sindromi dello spettro autistico, si nutre anche della paura e dalla “persecutorietà” che derivano da pandemia, guerra e crisi economica.
Quando si è parlato per la prima volta dell’associazione tra vaccini e autismo?
Il dottor Andrew Wakefield nel 1988 l’ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet, uno studio che riportava l’associazione tra vaccino antimorbillo-parotite-rosolia e autismo, poi rivelatosi una “frode scientifica”. Le falsificazioni presenti nello studio non furono subito individuate dal General medical council o da altri studi e articoli scientifici, bensì in seguito a un’indagine giornalistica di Brian Deer del Sunday Times. Lo studio fu ritirato nel 2010. Nel 2020 Wakefield ha sostenuto che la covid-19 sarebbe una bufala e nessuno dovrebbe vaccinarsi.
Che cosa scriveva Wakefield nello studio “falsificato”?
Lo studio del 1988 risultato poi falsificato, aveva riguardato 12 bambini di età compresa tra i 3 ed i 10 anni con una storia di sintomi gastrointestinali di tipo infiammatorio, riferita perdita di abilità neuropsicologiche, ad esempio il linguaggio, dopo una precedente storia di sviluppo neuropsicologico neurotipico e, secondo i genitori, a distanza di pochi giorni dalla somministrazione del vaccino. In quel momento storico era opinione abbastanza diffusa che condizioni infiammatorie gastrointestinali potessero compromettere la funzione di barriera protettiva costituita dalla mucosa gastrointestinale e quindi esitare nel passaggio di molecole con effetto neurotossico o neuroimmunomediato sullo sviluppo neuropsicologico.
Che cosa è successo dopo?
Successivamente, in un comunicato stampa la stessa rivista scientifica, ritrattò la pubblicazione del 1998 affermando che “Diversi punti del lavoro del 1998 di Wakefield sono scorretti “. Una commissione disciplinare del Comitato medico generale britannico (General medical council), dopo un accurato studio, decretò come “irresponsabile e disonesto” il modo con cui Wakefield aveva presentato la sua ricerca. Nel rapporto del comitato scientifico si leggeva, inoltre, che Wakefield aveva anche “rovinato la reputazione” della professione medica. Lo stesso Wakefield venne espulso dal Royal College of Physicians e non ha potuto più praticare la medicina.
Quali sono e a che punto sono oggi gli studi scientifici validati?
Alla rettifica avvenuta già nel 1988, sono seguiti molti studi di centri di ricerca autorevoli che hanno unanimemente escluso ogni legame tra vaccini ed autismo. Tra questi citiamo una revisione sistematica della Cochrane Collaboration del 2012 e il rapporto Adverse Effects of Vaccines Evidence and Causality dell’Institute of Medicine (IoM) statunitense del 2012, che ha preso in considerazione diversi vaccini rispetto al rischio di autismo, giungendo sempre a risultati negativi. Uno studio su vasta scala pubblicato su Vaccine nel 2014, ha compreso nella sua valutazione diversi vaccini, con e senza thimerosal, e ne ha escluso l’implicazione nei disturbi dello spettro autistico: nella metanalisi sono stati inclusi 5 studi di coorte, per un totale di 1256407 bambini e 5 studi di caso-controllo, per un totale di 9920 bambini ed entrambe le tipologie di studio hanno messo in evidenza come il rischio di autismo legato alla somministrazione del vaccino sia casuale e non causale. Uno ulteriore studio di caso-controllo, di Jain A. et al., pubblicato su JAMA nel 2015, condotto negli Stati Uniti sulla popolazione di bambini tra 2 e 5 anni vaccinata con il vaccino trivalente e confrontata con una popolazione non vaccinata, ha escluso un aumento del rischio di autismo sia nella popolazione esposta ad un’unica vaccinazione sia in quella esposta a due richiami vaccinali rispetto alla popolazione pediatrica non vaccinata. Inoltre, il rischio di sviluppare un disturbo di spettro autistico non aumenta se oltre che essere esposti al vaccino si ha anche un fratello affetto da autismo: in altri termini, il rischio di autismo non è aumentato dalla combinazione esposizione al vaccino e presenza di un fattore di rischio genetico-familiare.
Si sente molto parlare dei fattori ambientali, che ruolo hanno?
È importante specificare che è ormai ampiamente consolidato i disturbi dello spettro autistico siano patologie multifattoriali, alla cui patogenesi concorrono fattori di predisposizione genetica, costituiti da cluster di geni, e fattori di rischio cosiddetti ambientali. Gli studi volti ad individuare i fattori ambientali la cui esposizione risulta associabile ad un aumentato rischio di sviluppare un quadro di spettro autistico si sono differenziati in: 1. fattori presenti nei genitori, 2. fattori specifici del bambino, 3. fattori di esposizione ambientale. Tra i fattori legati ai genitori, è stata considerata l’età dei genitori. Tra i fattori specifici del bambino, l’insorgenza di complicanze al parto e fattori immunitari. Tra i fattori di esposizione ambientale (3), particolare salienza riveste l’esposizione dell’ambiente prenatale, dal momento del concepimento all’intero periodo della gravidanza. I fattori ambientali studiati in tal senso sono eterogenei: l’esposizione ad inquinanti ambientali, come pesticidi o l’inquinamento dell’aria, vivere in prossimità delle autostrade, l’esposizione al virus della rosolia, bassi livelli di assunzione di acido folico nel periodo del concepimento. Studi recenti hanno messo in evidenza l’associazione tra periodi specifici di “neurosuscettibilità” in cui il Sistema Nervoso (il cervello) è più vulnerabile, ed esposizione a tali fattori ambientali: in altre parole, non è l’esposizione al singolo o specifico fattore ambientale a costituire fattore di rischio verso un disturbo di spettro autistico, ma il momento del neurosviluppo prenatale e gestazionale in cui interviene l’esposizione. In particolare, sono state individuate “finestre temporali” di marcata “neurosuscettibilità” nel primo e secondo trimestre di gravidanza, periodi critici per tutti i processi di neurogenesi, migrazione e maturazione neuronale. Ad esempio, rispetto all’esposizione a pesticidi, diversi studi sembrano suggerire un’associazione con un aumentato rischio di autismo soprattutto se l’esposizione riguarda il primo trimestre di gravidanza. Le prove scientifiche in tal senso, insieme ai dati epidemiologici negativi riguardo l’associazione tra vaccini ed autismo, contraddicono il possibile ruolo dei programmi vaccinali rispetto all’insorgenza di quadri autistici.
Quanto è importante la corretta ed equilibrata informazione per i genitori e le famiglie?
Da sempre studiosi, medici, neuropsichiatri infantili e psicoanalisti invitano alla “cautela ed alla spiegazione condivisa”. Se ci riferiamo ai programmi di prevenzione vaccinale, su cui spesso i genitori chiedono, è necessario spiegare a che cosa servono e il loro scopo: conferire uno stato di protezione rispetto al pericolo di contrarre determinate infezioni e di ridurre o magari “eradicare”, com’è successo col vaiolo, alcune malattie infettive per le quali non esiste una terapia o che possano essere causa di gravi complicazioni. La pratica vaccinale ha quindi un “valore sociale” permettendo, attraverso la riduzione del numero di individui che si potrebbero ammalare, una protezione “comunitaria”, la cosiddetta “immunità di gregge” di cui si sente tanto parlare in questi ultimi tempi. Come afferma da sempre l’Oms, il rischio più volte paventato di una riduzione delle percentuali di adesione alle campagne vaccinali può rappresentare quindi un rischio in termini di salute collettiva. Ma d’altra parte la diagnosi di disturbo di spettro autistico fa piombare una famiglia in uno stato di angoscia, preoccupazione e spesso disperazione da annichilire in un primo momento. Superata la fase di shock, i genitori naturalmente iniziano a cercare tutte spiegazioni e le risposte possibili sul “Disturbo dello spettro autistico”.
Quali bisogni esprimono i genitori in queste situazioni?
I genitori si pongono molte domande umanamente comprensibili e psicologicamente necessarie per contenere il dolore per la propria sofferenza e le paure per il presente ed il futuro dei propri figli, sono diverse da genitore a genitore e da famiglia e famiglia. Per i genitori il dolore per i figli non è “né naturale né sopportabile, è spesso una sensazione straziante, talvolta difficile da contenere e per questo chiedono aiuto e sostegno. In generale, si chiedono perché sia successo, quali sono le cause, quali sono le cure, quali saranno i tempi per vedere dei miglioramenti, quali sono i trattamenti migliori e le prospettive future. Molto spesso insieme alla riabilitazione, chiedono d’iniziare anche una terapia psicoanalitica individuale per il loro bambino e di supporto per loro. Ormai i tabù rispetto alla psicoanalisi sono stati superati per le maggiori conoscenze e familiarità con essa. Le necessità psicologiche e le sofferenze causate dalla pandemia da covid-19 hanno sollecitato nel superare i pregiudizi, le preoccupazioni e il senso di vergogna rispetto alla necessità di chiedere un aiuto psicologico nel momento del bisogno e di rivolgersi ad uno psicoanalista, anni fa era ritenuto una cura “elitaria”, oggi è entrata nell’immaginario collettivo e divenuta una cura a cui tutti possono avere accesso.
Che cosa possono fare gli specialisti?
In questi momenti, è fondamentale dare uno spazio di ascolto ai genitori e al dolore che portano, alle loro numerose domande, qualsiasi esse siano e fornire risposte, supportate da tutte prove scientifiche a nostra disposizione ad oggi, sapendo che la ricerca farà ancora progressi. L’ascolto psicoanalitico è un ascolto attento, preciso, paziente che sa sopportare e dare un senso anche i silenzi dei genitori in cui la sofferenza o la paura paralizzano, non permettono di pensare e di parlare. Insieme all’ascolto, il lavoro importante è aiutarli a formulare le domande e chiedere non solo spiegazioni ma anche aiuto per sé stessi, per il peso che sentono di dover portare e per il senso di colpa che si accompagna alle malattie dei figli, colpa e paura di aver “trasmesso” loro qualcosa, di non essere all’altezza della situazione, di non riuscire ad aiutarli e a fare abbastanza. Tutto questo deve rispettare i tempi dei genitori ed essere porto nei modi i genitori sono in grado di accogliere, accettare e sostenere psicologicamente, emotivamente, inconsciamente. Per questi motivi sono sempre necessari una spiegazione condivisa con loro portatrice di conoscenza scientifica, competenza clinica e umana comprensione. Come ha scritto Publio Terenzio Afro nel 165 a. C. nella commedia Heautontimorùmenos (Il punitore di sé stesso). «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», «Sono un essere umano, niente di ciò che è umano lo a me ritengo estraneo» è valido allora come oggi e lo sarà per sempre.
Marialuisa Roscino