Con l’aggettivo “bresciano”, nell’ambito del lessico familiare che respiravo dall’età in cui ero in grado di dare significato a quanto veniva detto nel parlare quotidiano, si intendeva apostrofare bonariamente chi non sapeva nulla di barche a vela, di navigazione su piccoli specchi d’acqua come quelli di un lago, di terminologia adeguata a questo tipo di attività sportiva .
Io oggi mi definisco tale, con un velato disappunto, ma non posso fare a meno di reputarmi una bresciana, essendo nata in una famiglia dove la maggior parte dei suoi componenti è in grado di destreggiarsi con cognizione di causa su barche a vela, sebbene di piccole dimensioni, ma tali da permettere una navigazione sul lago, anche di lunga durata.
Mio padre cominciò a cimentarsi in questa attività, potremmo dire in questo suo hobby, intorno agli anni ’40 del secolo scorso.
Frequentava il lago di Bracciano da sempre, a causa del lavoro di medico condotto che aveva portato sulle sponde di esso un suo prozio alla fine dell’800. Da allora l’estate sorelle e nipoti del medico venivano con le loro famiglie a smaltire il caldo romano al lago, a volte affittando abitazioni nel paese di Anguillara (era ad Anguillara che questo mio antenato esercitava la professione di medico condotto).
Così con il tempo mio padre, un suo fratello e un loro amico, si misero a costruire delle piccole imbarcazioni a vela che essi stessi denominarono “sabatine”, in quanto nate sul lago sabatino (Anguillara Sabazia). La vela di queste piccole imbarcazioni, nella prima versione varata , era molto grande e lo scafo era piuttosto stretto, lavorato in legno : letteralmente segato, piallato, verniciato e calafatato da loro . So che le prime “sabatine” vennero costruite sul terrazzo della casa in cui sono nata e in cui sono rimasta fino al mio sesto anno di vita con la mia famiglia, a Corso Vittorio Emanuele. Poi in qualche modo venivano trasportate ad Anguillara dove verso la fine degli anni ’50 mio padre e mio zio acquistarono un capanno a fronte lago dove tenere le barche e tutta l’attrezzatura per “armarle” (vela, albero, boma, timone…) e poter bordeggiare nei pomeriggi estivi, quando verso le tre o le quattro cominciava ad alzarsi il ponente, vento ideale, vista la posizione della riva da cui si salpava, per intraprendere finalmente la rilassante uscita a vela.
Papà mi portava spesso con sé in barca ( una sabatina poteva trasportare al massimo due persone e io all’epoca ero piccola, quindi misura ideale: una persona e mezza) e mi spiegava come muovermi e come eseguire quei piccoli incarichi che il timoniere ( lui ) chiedeva per ottimizzare la navigazione : infilare la deriva a pochi metri dalla riva, né troppo presto, per evitare che questa si incagliasse sul fondale dove l’acqua era ancora troppo bassa, né troppo tardi per evitare beccheggiamenti della barca che avrebbero potuta renderla ingovernabile. Poi si prendeva il largo, a volte raggiungendo addirittura la sponda opposta del lago, dove si atterrava e ci si tratteneva il tempo di consumare una gassosa o una cedrata e si ripartiva per rientrare prima del tramonto sulla riva familiare di Anguillara.
Papà mi insegnava la direzione e il relativo nome dei venti. Ancora oggi per riconoscerli devo tener presente l’orientamento del lago dalla parte di Anguillara e trasporlo nel luogo in cui mi trovo per capire di che vento si tratti. Mi coinvolgeva nelle sue emozioni: quelle che provava in queste sue uscite in barca. Prestava attenzione al suono dell’acqua lacustre che s’infrangeva a prua sul legno dello scafo e diceva anche a me di ascoltarlo; mi comunicava a parole quanto bene potesse provare in quella pace che percepiva in mezzo al lago, lontano da tutto e da tutti, baciato dal sole e accarezzato dal vento… se avesse potuto sarebbe rimasto in quelle condizioni di beatitudine ad oltranza !
Poi mi rendeva partecipe delle tecniche per effettuare la virata e di quanto fosse più prudente virare in prua anziché in poppa (la virata in poppa detta “strambata” è la più pericolosa!), mi rendeva edotta su che tipo di navigazione stessimo effettuando: se di bolina, di bolina stretta, se di lasco o se in poppa. Mi mostrava quanto si doveva orzare o quanto poggiare per raggiungere la rotta ideale o per accelerare o rallentare la velocità.
Quando si rientrava c’era tutta la procedura del disarmo. Si ammainava la vela, facendo attenzione a far scapolare il picco dall’albero con la dovuta cautela. Poi la vela veniva accuratamente arrotolata attorno al boma e riposta. Si sistemavano deriva e timone e infine si toglieva dallo scafo l’eventuale acqua imbarcata, con la sassola e con la spugna (quello era compito mio).
Col passare degli anni il capanno dove riporre le barche era stato trasformato in un casotto in muratura che ancora oggi viene definito Rimessa.
In effetti qualcosa di teorico sulla barca a vela me la ricordo ancora, quindi il termine “bresciana” non mi si attaglia al cento per cento. Ma, a differenza di tutti i miei fratelli e delle mie sorelle, smisi di ipotizzare di assumere questa attività sportiva come mia, molto presto quando uno dei miei fratelli mi incoraggiò a uscire da sola su una sabatina. Era un orario in cui il vento non si era ancora alzato bene e quindi buono per una principiante, ma anche quello in cui cominciavano le prime raffiche, preludio all’assestamento del ponente pomeridiano. Alla prima raffica in cui mi impattai, entrai scotta …troppo! E feci una bella scuffia a pochi metri dalla riva! Fu il mio s-battesimo come timoniera. Da allora continuai ad accompagnare ancora per qualche tempo mio padre nelle sue brevi o lunghe traversate. Sempre come “prodiere”. Mai come “timoniere”.
Poi cambiarono molte cose.
Mio padre morì.
E anche la mia vita cominciava a prendere un’altra piega, lontano dal lago a da molte altre abitudini e attività familiari.
Quando dopo tanti anni tornai sul lago, notai che anche le sabatine erano cambiate. Un amatore della vela di Trevignano aveva proposto delle modifiche per rendere la sabatina più gestibile. Lo scafo divenne più tondeggiante, la vela più piccola e più simile a un triangolo equilatero piuttosto che a un triangolo rettangolo come era quella di prima.
I miei fratelli e le mie sorelle avevano (e hanno tuttora! ) mantenuto la passione per la vela e continuavano in estate, come papà, ad armare e poi disarmare le loro sabatine per le uscite sul lago, tramandando la simpatia per questo sport ad alcuni dei loro figli.
Quasi sicuramente le sabatine furono le prime barche a vela a comparire sul lago di Bracciano. In famiglia si racconta che quando alcuni bambini del posto le videro si domandarono l’un l’altro chi le facesse muovere e si risposero che era il vento “ e chi le manna? Dice ch’è lo vento!”. Indubbiamente negli anni ‘40/’50 erano una novità assoluta, visto che sino ad allora sul lago si potevano vedere solo le barche o i “barchini” dei pescatori con le loro reti. Tuttavia c’è chi dice che in tempi ancor più remoti ci fosse un Dinghi che partiva da Vigna di Valle, probabilmente in dotazione all’aereonautica militare che lì aveva una sua sede. Certamente la barca a vela come sport lacustre ad Anguillara iniziò con mio padre, mio zio a il loro amico Federico Zunini, un medico che morì di asiatica mentre esercitava la sua professione al Santo Spirito. Quando altri amici si aggregarono e costruirono a loro volta nuove sabatine (ognuna di esse aveva un numero applicato con stoffa nera in alto sulla vela, preceduto dalla lettera greca sigma ), si cominciarono ad organizzare delle piccole regate con tanto di percorso segnato da boe, tempi di durata e regole vere e proprie che, chi è oggi appassionato di vela, può notare come non differissero poi così tanto da quelle attuali. Si organizzava una regata all’inizio della stagione estiva (giugno) e una a settembre, la “Coppa Sabazia”. Momenti di aggregazione e di intrattenimento anche per gli autoctoni dell’epoca. Chi fra di loro è oggi ancora in vita, ricorda quegli eventi come elementi del folclore del luogo.
Storia di una barca a vela nata sul lago di Bracciano: la Sabatina.
Anna Cerocchi