Riceviamo e pubblichiamo – Il 16 novembre scorso, durante la mia quotidiana passeggiata, non ho potuto reprimere un moto di sconcerto nel vedere che in Viale Poggio dei Pini si stava procedendo all’abbattimento degli alberi che danno il nome al viale. Ne ho scritto su qualche chat. Della gran parte delle risposte ricevute un tratto comune è stato, più o meno: «Dispiace tanto anche a me, ma non si poteva fare diversamente, troppi i rischi per la sicurezza e troppi i disagi dei residenti».
Non sono un naturalista e non ho la straordinaria competenza del compianto Giuliano Sauli, grande maestro di ingegneria naturalistica e fondatore dell’AIPIN (Associazione Italiana per l’Ingegneria Naturalistica), con il quale ho avuto la fortuna di condividere alcuni anni di attività alla Commissione Nazionale per la Valutazione dell’Impatto Ambientale (Commissione VIA) alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso. Di fronte a Studi di Impatto Ambientale di opere che prevedevano gravi danni agli ecosistemi “perché non ci sono alternative”, controbatteva dicendo che le alternative ci sono sempre o quasi: basta cambiare punto di vista, studiare ed essere creativi.
- Cambiare punto di vista
Se l’obiettivo è spianare e asfaltare, non v’è dubbio che non ci sono alternative al taglio degli alberi. Ma se l’obiettivo è mettere in sicurezza e migliorare la vivibilità, è tutto un altro discorso. Mi si dirà che spianare e asfaltare perseguono proprio sicurezza e riqualificazione. Su questo corto circuito non sono d’accordo. E mi chiedo: è possibile che tutti gli alberi del viale, ma proprio tutti, sono fonte di rischio e di disagio? Sono state considerate tutte le possibili alternative all’abbattimento totale di decine di pini che – da quel che ho letto sui social – da circa 70 anni costeggiavano il viale, valutando ciascuna alternativa sulla base di criteri naturalistici e urbanistici seri e della relativa praticabilità tecnico-economica? È stata fatta una istruttoria basata su valide conoscenze scientifiche e tecniche, a valle della quale l’abbattimento di tutti i pini, lo spianare e l’asfaltare appare l’unica e sola opzione praticabile sotto il profilo tecnico-economico?
Oppure è possibile che esistano altre opzioni, che contemperano il mantenimento di questi alberi con la messa in sicurezza e la riduzione dei disagi, migliorando la vivibilità e la fruibilità per i residenti e per chi è di passaggio, magari per svolgere attività ricreative?
Se l’istruttoria è stata fatta, possiede le caratteristiche auspicate sopra, e giunge con argomentazioni rigorose, complete e tracciabili alla conclusione che l’abbattimento totale era inevitabile, allora … chapeau! È inutile proseguire nella lettura. Se no, forse può essere utile andare avanti, non certo per “piangere sul latte versato”, ma perché queste modeste riflessioni potrebbero rivelarsi di utilità nel futuro.
- Studiare
È da svariati decenni che si è preso atto che alberi, e vegetazione in genere, nelle aree urbane svolgono preziosissimi servizi ecosistemici per gli abitanti. In particolare le alberature contribuiscono a ridurre l’inquinamento dell’aria, a mitigare con l’ombreggiamento le temperature soprattutto nelle calde giornate estive, oltre a regolamentare il ruscellamento nei casi di eventi meteorologici intensi, evitando smottamenti e allagamenti.
I pini inoltre sono da sempre un elemento paesaggistico identitario di Roma e dei suoi dintorni, basta pensare ai pini di Villa Borghese o dell’Appia Antica, ripresi in quadri d’epoca e ammirati dagli aristocratici europei che, a partire dal XVIII secolo, intraprendevano il Grand Tour che aveva come meta l’Italia. Non v’è dubbio che con l’asfaltatura delle strade e con i marciapiedi la convivenza con i pini, e con gli altri alberi e la vegetazione in genere, è diventata meno agevole; ma questo non vuol dire che si debba rinunciare ai loro benefici in termini sia di godibilità del territorio sotto il profilo estetico, che di servizi ecosistemici: si veda per es. https://www.conalpa.it/conoscenza-e-gestione-delle-radici-dei-pini-intervista-allagronomo-naturalista-giovanni-morelli/ (basta esplorare internet e si trovano molti altri riferimenti in proposito).
Per valutare le condizioni del pino e la sua stabilità può essere sufficiente l’ispezione visiva (VTA-Visual Tree Assessment – ma bisogna sapere cosa guardare!) integrata, se necessario, con analisi strumentali. Questo dovrebbe consentire di determinare con sufficiente affidabilità:
- Quanti e quali pini sono in condizioni tali da consigliarne l’abbattimento. Tenuto conto che la buona pratica corrente nelle aree urbane stima che l’età in cui un pino deve essere rimpiazzato è pari a circa 90 anni.
- Quali e quanti pini sono una reale fonte di rischio per i residenti e per i passanti, e cosa si può fare per mitigare questo rischio. In particolare, per quali alberi l’abbattimento è indispensabile, e per quali è possibile mitigarne il rischio con una opportuna manutenzione.
Tutto questo andrebbe fatto in un’ottica di preservare e valorizzare, per quanto possibile, una specie arborea identitaria del paesaggio della nostra bella cittadina, soprattutto se localizzata in una realtà orografica che ne valorizza il pregio da punto di vista paesaggistico come un poggio.
- Essere creativi
Se, dopo aver studiato (fase 2), ci si concentra sul doppio obiettivo “mettere in sicurezza e aumentare la vivibilità” senza saltare immediatamente alla soluzione (apparentemente) più facile, cioè “spianare e asfaltare”, ma si prova ad esaminare la faccenda anche da altri punti di vista (vedi fase 1), è facile che emergano altre opzioni, soprattutto grazie al bagaglio di dati e conoscenze acquisite nella fase 2.
Affrontiamo prima l’obiettivo prioritario, cioè la sicurezza. La mia impressione, anche leggendo alcuni post, tra cui quelli su Facebook del Comitato Salviamo gli alberi Parco naturale di Bracciano-Martignano, è che sarebbe stato possibile mantenere un congruo numero di pini in sicurezza, ovviamente garantendo nel tempo una opportuna manutenzione.
Passando all’altro obiettivo, ovvero la mitigazione dei disagi, è vero che le radici creano difficoltà alla circolazione, in particolare dei mezzi motorizzati. A questo proposito le tecniche di ingegneria naturalistica (cfr. il link riportato sopra) forniscono utili strumenti, tramite l’utilizzo di un’opportuna pavimentazione atta tra l’altro ad “addolcire” i dossi naturali, considerando che in molti tratti urbani vi sono, giustamente, dossi artificiali per disincentivare velocità elevate. È utile sottolineare a tale proposito che su 100 incidenti 5 avvengono in autostrada, 22 su strade extraurbane e, purtroppo, ben 73 nei centri abitati (fonte ACI). Su questo aspetto non si sollecita mai abbastanza la cittadinanza a rispettare i limiti di velocità, per la sicurezza altrui e la propria, senza contare un minor inquinamento atmosferico e acustico. Lo dico a ragion veduta, perché su via Ponte di Valle Trave, che per un buon tratto è contigua a viale Poggio dei Pini e che frequento quasi quotidianamente a piedi, mi capita di vedere veicoli che superano abbondantemente il limite di velocità fissato a 30 km all’ora. Abituarsi a mantenere una bassa velocità già di per sé attenua i disagi in presenza di dossi, siano essi artificiali o naturali, come peraltro è ben noto.
Ma non basta: su questo specifico punto un po’ di creatività avrebbe potuto venire in soccorso: tanto per fare un esempio, un’area urbana di pregio paesaggistico e naturalistico, quale era Viale Poggio dei Pini prima dell’abbattimento degli stessi, avrebbe potuto a pieno titolo diventare un’area a traffico limitato, eventualmente a senso unico con transito consentito ai soli residenti e ad eventuali mezzi di soccorso. Sul viale non insistono attività commerciali, non vi è traffico di scorrimento, per cui una sola corsia al centro del viale avrebbe subito pochi disagi dalle radici dei pini, che per contro avrebbero goduto di tutto lo spazio necessario.
Se poi si avesse voluto “strafare”, i finanziamenti ottenuti dal comune per la “foresta urbana” si sarebbero potuti utilizzare a buon titolo per riqualificare Viale Poggio dei Pini e dintorni, creando un polmone verde di grande pregio naturalistico e paesaggistico, un altro cammeo di questa bella cittadina da mettere accanto allo splendido borgo storico che si affaccia sul lago di Bracciano. Con vantaggi in termini di vivibilità e fruibilità da parte dei residenti e di chi avrebbe goduto del viale per attività ricreative, senza contare l’indubbio aumento del pregio delle residenze prospicienti o prossime al viale, e annesse ricadute economiche.
A proposito della “foresta urbana”, che dovrebbe essere realizzata dove si svolge il mercato del lunedì, non posso non sottolineare le difficoltà di rinaturalizzare un suolo cementificato; chi volesse approfondire questo punto può leggere L’intelligenza del suolo. Piccolo atlante per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile di Paolo Pileri, e dello stesso autore un articolo che si può trovare qui https://altreconomia.it/a-proposito-di-parco-italia-e-del-progetto-di-forestazione-urbana-supportato-da-amazon/ . Paolo, che conosco fin dagli inizi della sua attività, è attualmente ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, e si batte da molti anni contro il consumo di suolo, una piaga che dal secondo dopoguerra ha deturpato l’Italia con enormi ricadute in termini di dissesto idrogeologico e non solo, piaga da cui purtroppo anche la nostra cittadina non è esente.
Non aggiungo altro, se non che con la decisione presa uno splendido viale è stato tristemente omologato a tutte le altre strade di Anguillara. Speriamo che questa vicenda serva per operare meglio nel futuro, in particolare con riferimento alla realizzanda “foresta urbana”.
p.s.: Adesso come lo chiameranno?
I nomi che gli umani danno a quanto li circonda sono fondamentali. Fondamentali, nel senso che “danno fondamento” alla realtà.
Nella Bibbia si legge (Genesi 2,19): “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome”.
“Dar loro un nuovo nome era uno dei principali strumenti con cui i colonialisti cancellavano il precedente significato dei territori conquistati. Nel New England, poco dopo aver sterminato i pequot, i puritani si dedicarono, come scrive John Mason, a farne sparire «il ricordo dalla Terra» cancellando il nome della tribù. A tale scopo, l’Assemblea generale del Connecticut decise che ai sopravvissuti sarebbe stato proibito dirsi pequot”. (Amitav Ghosh, La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in Crisi. 2021. Ed. it. 2022, Neri Pozza editore. La citazione si trova a pag. 57).
Mario Carmelo Cirillo