22 Novembre, 2024
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Una luce rossa che dovrebbe restare accesa tutto l’anno

Abbiamo una giornata per celebrare e commemorare tutto, la mamma e il papà, la gentilezza, i nonni e il coraggio, l’abbraccio e il sorriso, i defunti, la terra e l’acqua così come la giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne, che dal 1999 ricorre il 24 novembre di ogni anno. Bizzarro l’essere umano, un giorno all’anno celebra, proclama e propone con un rumore assordante di trombe e rullo di tamburi per tornare a essere un “esserucolo” pavido, distratto e contraddittorio nei restanti 364 giorni a venire.

Celebriamo la terra ma ne abusiamo ogni giorno, il sorriso ma offriamo solo ghigno, la gentilezza ma riempiamo i giorni di arroganza, la violenza sulle donne ma le donne continuano a morire… e a soffrire quasi ogni giorno. Non è un modo intellettualmente onesto per rendere onore al sacrifico delle sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, che potrebbero chiedersi dal luogo di verità in cui sono ora, quali e quanti progressi sono stati fatti dal loro sacrificio a oggi. Eppure hanno contato ceri accesi, panchine e scarpe rosse, palazzi illuminati, convegni di parole e parole, musica e coreografie, fiaccolate, flash mob; in sostanza tanto sdegno ma poca indignazione. Se ci indignassimo faremmo qualcosa, tutti, dal parlamentare all’imbianchino, dal magistrato al medico, i padri per i figli, uomini insieme alle donne disposti a scardinare quel sistema patriarcale e rivedere quel rapporto di potere tra i generi; uno uguale a una, l’uomo scendendo a patti con la propria insicurezza e l’ancestrale senso di impotenza, la donna contraendo quella disposizione al compatimento e alla comprensione di tutto, compreso l’intollerabile.

Se sapessimo indignarci, allora sì che celebreremmo degnamente la barbarie commessa fino ad oggi, ogni giorno però, con disciplina, coerenza, coesione, diventando onda, e mare, e oceano. Potremmo spegnere le luci rosse e illuminare di rispetto il mondo, ognuno apportando il proprio piccolo contributo esemplare, dalla famiglia alle istituzioni, dalla scienza all’imprenditoria, dallo sport alla comunicazione mediatica.

Sarà davvero una ricorrenza da celebrare quella in cui il maschio riconoscerà che non sempre è necessario il controllo a ogni costo ma quanto piuttosto la capacità di accettazione.

Il presupposto è un processo culturale di revisione lungo, quotidiano, silenzioso ma concreto, agito in rete con maglie sempre più fitte affinché gli affezionati della violenza si sentano sempre più emarginati, ridicoli, non accettati.  E un processo culturale di tal fatta, non deve partire dalla scuola ma dalla famiglia, bulbo di piante che potranno essere gentili o infestanti; è indispensabile, credo, un enorme ridimensionamento dell’egoismo genitoriale che consenta un dialogo educativo con i figli improntato sull’esempio e non sul precetto o, peggio, sull’indifferenza. Se intendiamo, invece, accontentarci dei proclami e dei simboli colorati, continuando a contare femminicidi e lacrime di sofferenza, potremmo pensare di individuare un giorno dell’anno per celebrare la giornata dell’ipocrisia, quella con cui proporre una rivoluzione fatta di slogan anziché di partecipazione.

Gianluca Di Pietrantonio
Criminologo forense

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