Riceviamo e pubblichiamo – Venerdì 26 gennaio 2024 noi e la nostra classe abbiamo incontrato l’ex direttore del Museo della Shoah di Roma nell’Aula Magna dell’Istituto secondario di primo grado “San Giovanni Bosco”. In onore del Giorno della Memoria, il 27 Gennaio, abbiamo discusso sul tema dell’olocausto, delle discriminazioni razziali e dello sterminio degli Ebrei.
Il professor Cavola ha iniziato il suo discorso con una spiegazione storica. Tutto nacque tramite la propaganda: i Tedeschi raffiguravano gli ebrei tramite vignette, cartoni animati, immagini satiriche, come brutti, con un grande naso e nocivi per l’economia dello Stato. La discriminazione, però, non si fermava solamente agli Ebrei: venivano emarginati anche i disabili (rappresentati come scimmie), gli zingari, gli omosessuali, i malati psichiatrici e nemici politici. Tra le vignette che ci hanno colpiti maggiormente, vi era una rappresentante un feto ebreo all’interno di un barattolo, con l’iscrizione “feto di un popolo sterminato anni fa da un Paese molto forte”.
Le discriminazioni si verificarono anche in Italia, dove vennero aperti campi di concentramento. In seguito alla propaganda si cominciò ad applicare violenza graduale sugli oggetti appartenenti agli Ebrei. Attraverso ciò Hitler voleva osservare le reazioni del popolo, per poi prepararsi alla soluzione finale. Il professor Cavola ci ha mostrato fotografie nelle quali i Tedeschi tagliavano la barba agli Ebrei, o li costringevano a lavare le strade, nello sfondo delle quali si notava sempre una folla divertita.
La notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 è ricordata come la “Notte dei cristalli”, in cui i Tedeschi ruppero tutte le vetrine dei negozi ebrei facendole ripagare a loro spese. Questo fu l’inizio ufficiale della violenza fisica contro gli Ebrei.
In seguito a questa spiegazione storica il professor Cavola ci ha fatto calare nei panni dei deportati, facendoci intraprendere il loro stesso viaggio attraverso delle immagini proiettate. Siamo partiti dal ghetto di Roma, le uniche quattro vie di uscita erano state bloccate da camion nazisti, ci diedero l’ordine di preparare lo stretto necessario, di portare con noi tutti gli oggetti di valore e di farci trovare fuori casa entro pochi minuti. Pochi di noi riuscirono a scappare per i tetti, il resto venne catturato dai nazisti. Ricordiamo che una signora riuscì a salvare suo figlio neonato consegnandolo alla portiera del suo palazzo, che non era ebrea e si spacciò per sua madre.
Una volta arrivati in stazione ci caricarono su dei treni merci, come bestie, in piedi, stretti e senza cibo ed acqua, per un viaggio molto lungo che aveva come destinazione Auschwitz, “la rampa della morte”. Qui, avvennero le prime divisioni: tra uomini e donne, tra i destinati alle camere a gas e coloro che, in grado di lavorare, avrebbero potuto vivere provvisoriamente. Lo scopo ultimo del campo era infatti quello di sterminare chiunque, si diceva che da Auschwitz si uscisse solo attraverso la canna fumaria dei forni crematori.
I Tedeschi stamparono sul braccio degli Ebrei dei numeri, identificandoli come pezzi (in tedesco, “stuck”). Con questo, il loro scopo era quello di deumanizzare la morte, poiché è più facile uccidere un numero, un pezzo, che una persona con un nome ed una storia. Ad Auschwitz abbiamo avuto il modo di osservare un lago, nel quale i tedeschi, a volte, gettavano le ceneri dei cadaveri in seguito ai forni crematori.
Altri cadaveri vennero seppelliti, dagli stessi prigionieri, sotto ad un prato, che ancora ad oggi non è completamente lineare ma leggermente ondulato.
Tramite questo metodo di immedesimazione, molte persone nella sala si sono commosse. Un’ulteriore immagine che ci ha colpiti raffigurava un gruppo di prigionieri in un bosco, che di lì a breve sarebbero stati rinchiusi nelle camere a gas. In particolare, in primo piano si poteva notare una bambina ignara della sua sorte che guardava fisso colui che scattava la fotografia, inconsapevole di quello che le sarebbe accaduto. Per i Tedeschi, infatti, l’uccisione di queste persone valeva come un premio, tanto da testimoniarlo con fotografie.
L’incontro ci ha fatto riflettere molto anche riguardo alle discriminazioni che tutt’oggi viviamo. Non si possono ferire persone, neanche tramite le parole o lo scherzo. Il professor Cavola, al termine del suo discorso, ci ha anche letto una poesia, intitolata “Prima vennero…”, che ci ha trasmesso il messaggio di non stare in silenzio, essere indifferenti o voltarci dall’altra parte di fronte a discriminazioni, che siano rivolte a noi o non.
Concludiamo l’articolo ringraziando il professor Cavola ed invitandovi, se mai doveste visitare un campo di concentramento o sterminio, a lasciare una pietra, come tradizione ebraica, quando ci si reca a visitare i parenti defunti, in segno che tutto il sangue versato non dovrà essere mai dimenticato.