Notizia di qualche giorno fa è che, in una nota catena di supermercati, la carne di pollo presentava delle striature di grasso all’interno delle parti magre come, ad esempio, per il petto di pollo, il ‘difetto’ (definito white striping per il colore biancastro delle striature) non è solo una questione estetica ma indice di provenienza da allevamenti intensivi in cui gli animali sono sottoposti a una crescita accelerata e non sana in condizioni di sovraffollamento, con tutto ciò che ne consegue. Questo studio di Essere animali, come quello del WWF in cui si è evinto che ognuno di noi ingerisce l’equivalente di una carta di credito di plastiche a settimana, sono solo una parte di testimonianza del fatto che ci deve essere una maggior presa di coscienza da parte degli esseri umani per ciò che concerne la salute dell’ambiente che si ripercuote sulla salute dell’uomo ma anche come certe scelte inerenti ai prodotti alimentari (e non solo, vedi i capi di abbigliamento) vadano ad inficiare direttamente sulla salute.
Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Eva Alessi, biologa, Responsabile Sostenibilità che si occupa proprio di questo all’interno del WWF.
Dott.ssa Alessi immagino che il grasso nelle parti magre del pollo, indicando che sono stati trattati per una crescita accelerata e in condizioni di sovraffollamento che determina una scarsa igiene e il conseguente diffondersi di problemi di salute degli animali per cui vengono usati gli antibiotici, deve essere visto come la punta di un iceberg dal quale guardarsi bene?
«Nei Paesi sviluppati la gran parte della carne, dei prodotti caseari e delle uova che acquistiamo viene prodotta in allevamenti intensivi, una forma di allevamento che utilizza tecniche industriali per ottenere la massima quantità di prodotto al minimo costo e utilizzando il minimo spazio, con il supporto di appositi macchinari e l’impiego di farmaci veterinari. Per gli animali costretti a vivere tutta la vita negli allevamenti intensivi questo significa spazi sovraffollati, luce artificiale, nessuna possibilità di mettere in atto comportamenti naturali. Eppure, una quantità enorme di animali da allevamento passa la propria vita in queste condizioni.
Se misuriamo il peso complessivo dei mammiferi che popolano il nostro Pianeta, il 60% del totale è costituito da animali d’allevamento (bovini e suini prioritariamente). Il peso degli esseri umani (anche noi siamo inclusi nel calcolo!) corrisponde appena al 36% pur essendo arrivati a otto miliardi. Per intenderci, due terzi dei mammiferi del Pianeta sono quelli che mangiamo. Tutto il resto, cioè la fauna selvatica, dai leoni agli elefanti, dalle balene ai panda, è ridotto ormai solo al 4% della biomassa dei mammiferi sul Pianeta. Similmente per gli uccelli, il 70% della loro massa totale è costituito da pollame destinato all’alimentazione umana, solo il 30% sono uccelli selvatici. A livello globale il 70% della carne di pollame, il 50% di quella di maiale, il 40% di quella bovina e il 60% delle uova vengono prodotti in allevamenti intensivi. In Europa, più dell’80% della carne proviene da allevamenti intensivi e in Italia l’85% dei polli è allevato intensivamente, oltre il 95% dei suini vive in allevamenti intensivi, quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo.
Per quanto riguarda gli effetti che ciò comporta sulle emissioni climalteranti, gli allevamenti sono responsabili del 16,5% delle emissioni globali di gas serra (come l’intero settore dei trasporti, considerando treni, macchine, aerei e camion) e del 60% delle emissioni dell’intero settore agroalimentare. Ciò significa che senza eliminare gli allevamenti intensivi non saremo in grado di rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Il peso degli allevamenti riguarda anche altre risorse: consumano fino al 10% dell’acqua dolce e occupano fino al 30% delle terre non coperte dai ghiacci, direttamente o indirettamente (allevamenti, pascoli e colture per la mangimistica).
Non è trascurabile la deforestazione provocata dall’aumento a livello globale della domanda di carne: il 60% delle foreste pluviali (in Amazzonia questa percentuale arriva al 70) viene abbattuto proprio per ottenere pascoli e per coltivare grandi quantità di vegetali (soprattutto soia e cereali) destinati all’alimentazione animale. Il 77% dei terreni agricoli mondiali è dedicato all’allevamento animale da cui però, a livello nutrizionale, deriva solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine totali consumate dalla popolazione mondiale. Questo fenomeno di deforestazione contribuisce non solo alla perdita di biodiversità, ma anche all’intensificarsi dell’effetto serra responsabile del riscaldamento globale, all’aumento del dissesto idrogeologico e all’aggravamento della siccità. In 50 anni abbiamo distrutto oltre il 60% della biodiversità, e l’allevamento è il principale motore di questa perdita di specie. A livello europeo la produzione zootecnica contribuisce per il 78% alla perdita di biodiversità terrestre. Un altro peso degli allevamenti intensivi è il grave inquinamento che provocano. In particolare, gli antibiotici somministrati agli animali sono tra le cause dell’aumento dell’antibiotico-resistenza negli esseri umani, che l’OMS ha recentemente definito “un’emergenza sanitaria globale”. Con oltre 10mila decessi l’anno, su 33mila circa in Europa, l’Italia ha il triste primato delle morti da resistenza agli antibiotici in UE. Nel nostro Paese, circa il 70% degli antibiotici venduti è destinato agli animali e questo abuso sta contribuendo ad alimentare questa grave problematica per la salute umana. Solo con una drastica riduzione del consumo di carne (ma anche degli altri derivati animali) sarà possibile eliminare gli allevamenti intensivi e realizzare modelli di produzione più ecologici e attenti al benessere umano e animale».
Le plastiche che ingeriamo da dove provengono e perché è importante non solo una attenzione all’alimentazione ma anche ai materiali e le fibre che indossiamo, per esempio?
«La plastica oggi è il terzo materiale prodotto dall’uomo più diffuso sulla Terra, dopo acciaio e cemento. A differenza di questi altri due materiali, il più grande mercato della plastica (44% di tutta la plastica prodotta) è l’imballaggio, un’applicazione la cui crescita è stata accelerata dal passaggio globale dai contenitori riutilizzabili a quelli monouso. La produzione globale della plastica è passata da meno di 2 milioni di tonnellate del 1950 a oltre 390 milioni di tonnellate nel 2021 (un aumento di circa 200 volte!), di cui il 90% derivate da materie prime fossili, l’8% da plastica di riciclo e 1,5% da fonti bio. Ogni anno nel mondo vengono utilizzati fino a 5mila miliardi di sacchetti di plastica (più di 1 milione al minuto), mentre ogni minuto si acquistano 1 milione di bottiglie di plastica. Numeri impressionanti che hanno fatto sì che la massa (in peso) di tutta la plastica presente sul Pianeta sia il doppio della biomassa totale degli animali terrestri e marini messi insieme! La maggior parte delle plastiche presenti nell’ambiente (88%) è costituita da macro-plastiche (più grandi di 5 mm), una dispersione dovuta principalmente a una raccolta e uno smaltimento inadeguati. Il restante 12% è rappresentato dalle microplastiche, ossia plastiche con un diametro inferiore a 5 mm, difficili da vedere e, quindi, da intercettare per rimuoverle e monitorarle. Le micro e nano plastiche derivano non solo dall’immissione diretta nell’ambiente dei prodotti che le contengono, ma anche dalla frammentazione e degradazione dei rifiuti di plastica abbandonati in natura, dall’abrasione degli pneumatici, dall’usura dei freni o dal lavaggio di tessuti sintetici. I detriti di plastica sono stati trovati in tutte le coste, sulla superficie e nelle profondità di tutti i mari e oceani, nel suolo, nei laghi e fiumi, nell’atmosfera. La plastica è un inquinante “scarsamente reversibile”, sia per le continue immissioni in natura sia per la sua persistenza ambientale. Secondo gli scienziati, nel 2022 la presenza di inquinanti ambientali, tra cui ovviamente la plastica, ha superato il limite planetario (Planetary boundary), oltre il quale non c’è più la sicurezza che gli ecosistemi garantiscano condizioni favorevoli alla vita. Il problema più grande è proprio quello della persistenza: rischiamo di contaminare le reti alimentari terrestri e marine, senza essere in grado di tornare indietro. Basti pensare che è stato dato il nome di “plastisfera” a un nuovo habitat microbico marino, che si sviluppa sui detriti dispersi in mare. L’enorme quantità di plastica sarà parte integrante della fauna e della flora selvatiche praticamente per sempre. E non solo: Le micro e nano plastiche hanno raggiunto anche l’essere umano: le microplastiche sono state trovate nelle feci, nel sangue, nei polmoni e nella placenta umana. È stato stimato che ogni giorno possiamo assumere oltre cento mila microplastiche da cibo, aria e acqua. Si tratta peraltro con ogni probabilità di una sottostima in quanto sono considerate solo alcune fonti di esposizione alle plastiche, non tutte».
Che problematiche di salute sono conseguenti al contatto con tutte queste sostanze nocive come la plastica?
«Gli effetti sulla nostra salute di questa esposizione multipla e cronica sono ancora poco noti, ma è certo che le sostanze di cui sono costituite le plastiche o quelle che trasportano possono danneggiare la nostra salute soprattutto a lungo termine, rappresentando un potenziale rischio per le generazioni future. Le sostanze associate alla plastica che arrivano nei tessuti e nelle cellule umane alterano le funzioni endocrine, aumentano il rischio di nascite premature, disturbi dello sviluppo neurologico, infertilità, obesità, malattie cardiovascolari, malattie renali e tumori. Le esposizioni precoci (di feti, neonati, bambini e adolescenti) a sostanze chimiche associate alla plastica aumentano anche il rischio di molteplici malattie non trasmissibili nel corso della vita».
Considerando poi un altro aspetto, quello etico e lo sfruttamento che si cela dietro la produzione di certi tipi di prodotti, quali le indicazioni per non foraggiarlo?
«La catena del valore mondiale di molti prodotti “economici” affronta anche enormi problematiche sociali, dovute soprattutto alle strategie industriali volte a ridurre al minimo i costi di produzione in modo da soddisfare la domanda di prodotti a prezzi ridotti da parte dei consumatori. Nella manodopera a bassa retribuzione e non qualificata di molti settori produttivi, caffè, cacao, fiori, computer, smartphone e vestiti, il lavoro minorile desta gravi preoccupazioni insieme a quello femminile, che rappresentano la maggioranza dei lavoratori, con gravi ed evidenti problemi di ingiustizia sociale legati sia allo sfruttamento sia alla parità di genere. In molti Paesi produttori il costo del lavoro è basso, ma i costi umani sono invece molto alti.
Se vogliamo porre fine all’ingiusto sfruttamento di milioni di persone, dobbiamo fare anche noi, come cittadini e consumatori, la nostra parte e leggere l’etichetta di quello che acquistiamo o informarci sulle policy sociali delle aziende da cui acquistiamo. A volte il luogo di fabbricazione, unito a un prezzo troppo economico, sta a indicare tagli di costi di produzione e spesso sono proprio quelli della manodopera. Sono certa che la gran parte dei consumatori sarebbe disposta a pagare qualcosa in più per assicurare ai bambini, alle donne e a tutti i lavoratori in generale, un futuro migliore, senza forme di sfruttamento e schiavitù, oggi inaccettabili».
Marzia Onorato
Redattrice L’agone