Enrico Berlinguer, nato il 25 maggio 1922, è stato tra le figure più influenti e iconiche della Prima Repubblica.
Il padre, l’avvocato Mario Berlinguer, era discendente da una famiglia nobile di lontane origini catalane, ufficiale durante la I Guerra Mondiale e deputato nell’Alleanza liberal-democratica di Giovanni Amendola.
La madre, Mariuccia Loriga, era cugina della madre di Francesco Cossiga e figlia del medico Giovanni Loriga, autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche in Italia e all’estero.
Questa nuova opera dell’amico giovinotto, quasi novantenne, Amedeo Lanucara, è un rifacimento di un suo precedente lavoro, dallo stesso titolo, che si appoggia sulla sua ossatura, offrendo una nuova veste stilistica, nuovi documenti, nuove ombre e nuove lucisuEnrico Berlinguer con un ultimo nuovissimo capitolo, il tutto con un preciso taglio giornalistico che si basa su interviste dirette rivolte a chi lo ha conosciuto in vita.Si tratta della analisi, approfondita e confermata da numerosi documenti e testimonianze, della figura di un capo dalla forte caratura politica, che non era certamente un umile proletario rivoluzionario, bensì l’amato e protetto rampollo di buonissima e nobile famiglia, garantito e salvaguardato da un padre scafato, che seppe introdurlo a figure di spicco, siano esse familiari che estranee, in primis Togliatti, facendo sbocciare un leader amato persino dagli avversari politici (non dimentichiamo che ai suoi funerali, fra lo stupore generale, andò a rendergli omaggio persino Giorgio Almirante).
La figura descritta in questo lavoro non è quella agiografica di un santo o di un eroe. Qui il nostro Enrico, più che un invincibile Achille piè veloce, è un pio Enea che traghetta un partito illustre e la nostra stessa Italia fuori dai pericoli di servizi di potenze estranee al nostro Paese, evitando “golpe” di tipo sudamericano e conducendo il PCI ad essere il primo partito in Italia, faro per altri partiti comunisti in Europa.
Che Berlinguer non sia dipinto come un eroe o una sorta di santo laico è certamente un bene, soprattutto per i giovani. Indubbiamente è stato un leader lungimirante, intelligente e preparato, che ha portato il PCI a livelli impensabili, ma renderlo eroe significa alienare la possibilità di seguire i suoi passi e fare altrettanto o meglio. Pertanto Amedeo ne illustra tutte le sfaccettature familiari e sociali, ne mette in risalto luci ed ombre per farne comprendere la vera grandezza, l’enorme distanza da certe figure politiche odierne e magari indurre qualcuno ad imitarne i passi perché Enrico non è e non appare mai una figura lontana dall’uomo normale, sebbene dotato di spirito osservativo elevatissimo e di una fermezza nei suoi ideali sui quali non ha mai ceduto.
Leggendo il testo si rivive la storia della nostra Italia, dalla sua emersione da una guerra terribile, insulsa, inutile, dannosa, dolorosa. Una Italia di cui le potenze vincitrici vogliono appropriarsi per la sua posizione strategica. Si rivive la storia italiana del secolo breve osservando la vita privata di un uomo schivo e ritroso, che però diviene gigantesco nel momento in cui non teme di strappare il legame del partito con l’URSS e non teme di rischiare,con il suo popolo,tendendo la mano all’Occidente.
Amedeo descrive le scelte dettate da un leader dotato di una grande capacità di interpretare la realtà, scelte che paradossalmente sono messe in atto da un uomo piccolo, apparentemente debole e riservato, ma che al momento opportuno sa mostrare i muscoli nel modificare il percorso politico, sulla base di una appropriata e lungimirante lettura del presente, senza tuttavia mai tradire le proprie idee di comunista vero o abusare la propria figura carismatica per deviare il percorso politico; un percorso sempre indirizzato alla salvaguardia dei più deboli per i quali,iconicamente,muore non da eroe con armi letali in pugno, ma parlando, cercando di convincere democraticamente, insistendo nel voler concludere il proprio discorso elettorale in piazza a Padova. Questi dovrebbero essere i nostri eroi, non chi uccide o i generali che fanno morire altri in guerra, ma chi evita le morti e muore parlando durante una competizione elettorale.
Il libro non è un testo né agiografico, né santificante, né dissacratorio: è semplicemente realistico. Forse si sbalza dal piedistallo di “deus” il caro Enrico, il leader più amato, ma lo si fa per ergerlo su un migliore piedistallo: quello di “homo”.
Descrive, quindi, le difficoltà d’una amara fanciullezza, che l’agiatezza economica non tempera, segnata dalla tragica agonia della madre, durata 12 anni, cancellandogli quello che dovrebbe essere il periodo vitale più sereno. Con un padre focoso e giovane avvocato sardo, assorbito dagli impegni legali, dalla politica e dalle galanterie, in un periodo storico dove i padri non erano d’uso dedicare tempo per i figli. Da qui lo scadente curriculum scolastico. Enrico preferiva passare le nottate non a studiare, ma a giocare a poker, il più politico dei giochi d’azzardo, ove, studiando gli avversari, imparò infatti a far politica, imparando a riconoscere chi bluffa da chi abbia carte solide. Ma ebbe uno zio, Stefano Siglienti, presidente dell’IMI, che fu poi l’analogo di Cuccia, tra gli anni ’50 e ’60, che gli fece capire che il sistema capitalistico era cento volte più produttivo di quello sovietico e che il duello della guerra fredda sarebbe stato vinto ineluttabilmente dall’Occidente.
Il libro descrive, quindi, gli errori giovanili, come i 100 giorni in carcere per i moti del pane a Sassari del 1944, che, forse su forte influenza del padre, trascorse non in un umido sotterraneo, insieme al Compagni con le gallette carcerarie, ma in una camera singola a pagamento.
Si racconta quando il PCI cercava strane alleanze col MSI e coi reduci di Salò, fin ai fatti del luglio 1960, che ricondurranno il PCI sulla linea dell’antifascismo militante, di cui Enrico fu il forte propulsore come segretario organizzativo del partito.
Racconta l’incessante duello politico con Giorgio Amendola, l’irriducibile anima ghibellina del PCI; come vinse l’ordalia con Giorgio Napolitano, il pupillo di Amendola, per la scalata a segretario del partito; e come, da segretario, mise la museruola agli avversari interni, con un colpo di mano degno dei più consumati politici, abolendo l’Ufficio Politico, con la scusa di essere un inutile doppione della Direzione.
Il libro racconta infine la giornata-tipo di Enrico. fin al nuovo capitolo, rispetto alla prima edizione, che racconta il dramma del 16 marzo 1978, che distrusse politicamente sia Moro sia Berlinguer e che, almeno per l’Italia, rappresentò l’imminente fine del secolo breve.
Riccardo Agresti