6 Luglio, 2024
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Cyberbullismo, parlarne serve. Purché non si faccia a sproposito

Un fenomeno che interessa circa il 20% della popolazione scolastica

Tempo fa, su un mezzo pubblico, ho avuto modo di ascoltare una conversazione tra due persone: da alcuni passaggi ho compreso che stavano parlando di bullismo e una delle due, in un passaggio, ha chiesto all’altra: «Ma non è che se parlerà troppo? … d’altronde, queste sono dinamiche tipiche dei giovani, anche quando andavamo a scuola noi accadevano».

Ho fatto mia la domanda, cercando di trovare una risposta per me, distante dalle opinioni ma sostenuto da dati e riscontri con cui regolare e trovare un senso compiuto, anche alla mia dedizione, ormai quasi quindicennale, al fenomeno.

Ho subito imposto a me stesso la critica dell’“anche quando andavamo a scuola noi” perché la diffusione di internet, e quindi la trasformazione cyber della prepotenza, fino a circa un decennio fa non c’era; e la veicolazione telematica, non è un aspetto da poco sull’incisività nella sofferenza emotiva e nelle afflizioni psichiche.

Rivolgere lo sguardo alle statistiche, poi, rende immediatamente inappropriato parlare di un allarmismo immotivato o di un fenomeno di cui forse “si parla troppo”: in crescita progressivamente sensibile, interessa circa il 20% della popolazione scolastica, un adolescente su due ne è stato vittima almeno una volta, il 50% di coloro che lo subiscono (quindi uno su due), dichiara di aver pensato al suicidio, l’11% di averlo tentato, il 70% di essersi praticato autolesionismo, una percentuale pressoché  analoga a quella di coloro che entrano in depressione.

Se di allarme non si trattasse, d’altronde, il Governo non avrebbe legiferato ad hoc, varando la legge 17 maggio 2024 n. 70 “disposizioni e delega al Governo in materia di prevenzione e contrasto del bullismo e del cyberbullismo” il cui impianto normativo prevede “azioni di carattere  preventivo  e con una strategia di attenzione e tutela nei  confronti  dei  minori, sia nella posizione di vittime  sia  in  quella  di  responsabili  di illeciti, privilegiando azioni di carattere formativo ed educativo e assicurando l’attuazione degli interventi, senza distinzione di età”.Stati vicini a noi, come la Francia, hanno promulgato una legge che vieta l’uso del cellulare a minori di 11 anni e ne disciplina l’uso, con stringenti regole etiche, fino ai 18, con pregnanti disposizioni che ne disciplinano programmi educativi per l’uso.Parrebbe che parlarne serve, dunque, purché non a sproposito; farlo negli ambienti deputati a promuovere un cambiamento, farlo nel modo giusto e con le competenze necessarie, ma soprattutto farlo con l’esempio da cui questi adolescenti, forse probabilmente solo emulatori di noi adulti, possano imparare a diventare donne e uomini migliori.

Gianluca Di Pietrantonio
Criminologo forense

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