2 Novembre, 2024
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Ti amo da morire. E basta poco per “finire” sui giornali

L’attaccamento ossessivo non è amore. E, dopo il “fattaccio”, fiumi di parole

 Storie raccapriccianti e diverse, drammi ognuno a sé stante, matrici simili. Questo hanno in comune i tanti, troppi episodi che vedono soffrire, ma spesso anche morire, le donne, vittime per elezione biologica e per un’ancestrale disponibilità ad amare oltre ogni ragionevole limite di sopportazione.

Rapporti affettivi viziati da manie di controllo, da dinamiche relazionali morbose, continuano a farcire le pagine di cronaca anche d’estate. La violenza non va in ferie.

Anzi, complice l’estate, esplodono furibondi litigi, si dilatano la gelosia, il dubbio, la paura della solitudine antagonista di un impulso alla libertà e alla spensieratezza.

Precarietà di coppia

Crollano i rapporti di coppia precari, che con il caldo trasudano il loro marciume; si svuotano le città e le energie di chi è costretta a giustificare continuamente, provare, negare, fingere, sopportare, mascherare lividi sugli occhi e nell’anima.

Si consumano tragedie private sul palcoscenico della famiglia, teatro che dovrebbe mandare in scena l’amore ma che invece recita il dramma dell’amore che uccide.

Vane le leggi, vane le strategie, vani tutti gli sproloqui sapienti dei profeti, in ferie tutti gli oratori del “si dovrebbe fare”; restano solo i miserabili con l’alibi degli innamorati, che d’amore non nutrono ma lo risucchiano come saprofiti subdoli e maligni.

Uomini indistinti nelle gerarchie dell’età, della cultura, dell’abbienza e dei ruoli sociali, sono tutti squallidamente allineati sulla bisettrice dell’incapacità, ognuno beffardamente convinto di essere il migliore, in realtà carnefici e vittime allo stesso tempo a smentire la superiorità vantata.

Mi chiedo, e condivido la domanda, se sia davvero importante, ormai, tentare di indagare le ragioni dell’irragionevole, perdersi a cercare strategie dove non c’è logica, appellarsi a chi non percepisce invocazioni.

Inevitabile scetticismo

Scettico sulla possibilità che a breve termine possano essere significativi i piani di cambiamento culturale, deluso dal maschio con la sua impronta autocratica, sarei propenso al fatalismo dell’arrendevolezza se la mia indole testarda e idealista non mi facesse rimanere tenacemente improntato al far qualcosa: mi rivolgo, dunque, a chi ritengo che invece possa davvero marcare la differenza, innescare la controtendenza e processare un cambiamento: le donne.

Deponete la tendenza arcaica a sopportare, pretendete la dignità che donate, stracciate le vesti della crocerossina e lasciate al proprio morbo chi non si dimostra disponibile alla guarigione.

Sappiate che il dare deve reggersi sul presupposto del recepire, il chiedere essere muto, il camminare insieme deve ricalcare i passi di una danza leggera che, benché su evoluzioni diverse, chiuda sempre lo stesso cerchio immaginario sul noi.

“Noi” sia quel binomio fuori dalle regole matematiche dove due non è il doppio ma il contrario di uno.

Arrendersi… mai!

Non dite sempre sì, non vi arrendete all’obbedienza, non compiacete, non lasciate che sia ma pretendete che debba essere.

Non lasciate alzare la voce, le mani, l’altezza della sedia così che vi si guardi dall’alto in giù.

Ricordate che non esiste stagione per sopportare le angherie e la violenza; il caldo d’estate, le fioriture di primavera, lo spogliare degli alberi d’autunno e la neve dell’inverno si reggono sull’equilibrio giusto del creato e sull’equilibrio, dunque, dovete concedervi e ricevere nella medesima capacità d’intenti.

Fatelo, donne, cosi che io possa finalmente scrivere di fate e folletti, notti di luna e musiche di stelle, tramonti cobalto e danze millenarie nel ricordo lontano del tanto dolore ascoltato e raccolto. Ve lo chiedo perché so che lo potete fare.

Gianluca Di Pietrantonio
Criminologo forense

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