Violenza: nome comune di cosa, femminile, singolare.
Se chiedessimo a un bambino di fare l’analisi grammaticale di questo termine, probabilmente questa sarebbe la sua risposta. Una risposta chiara, schematica, assolutamente scarna di qualsivoglia connotazione emozionale, indebolita della sua forza espressiva. Nessuno potrebbe considerare questa definizione linguistica inesatta o addirittura sbagliata. Eppure l’errore è così visibile, ed è proprio lì, in quella definizione così precisa: è nell’equilibrio contraddittorio tra significato e significante. Grammaticalmente violenza è un termine femminile, eppure, nell’accezione comune, il privilegio della violenza viene attribuito esclusivamente ai maschi. Un termine che è femminile nel genere e dal quale, però, le donne sono costrette a difendersi, di cui sono vittime predestinate.
Nell’immaginario collettivo, dall’inizio dei giorni, la violenza è una caratteristica che mal si adatta al genere femminile, gli atti violenti compiuti dalle donne sono considerati frutto di un’irrazionalità insana, di quella che più comunemente possiamo chiamare follia. Gli uomini, questo è quello che il luogo comune ci insegna, usano la violenza come extrema ratio, le donne invece sono totalmente incapaci di controllarla. E la storia letteraria ce lo ricorda costantemente. Medea è l’esempio massimo di questa concezione: è una folle, una donna completamente fuori di senno, che pur di consumare una vendetta contro il marito è disposta a uccidere i propri figli. È una donna che non riesce a dominare la potenza distruttiva dell’amore, che non accetta la fine di un matrimonio, che pur di non vedere celebrate le nuove nozze del marito decide di annientarlo togliendogli ciò che ha di più caro. Lo stesso potremmo dire di Clitemnestra, che ingannata dal marito e incapace di reagire, organizza nei minimi dettagli il suo omicidio e con mente lucida e spietata lo uccide. Tantissimi altri sono gli esempi nella letteratura di donne dipinte come figure incapaci di dominare le passioni, donne che, a differenza degli uomini, non sanno gestire razionalmente gli eventi della vita, non sanno padroneggiare qualcosa che nel genere è proprio donna: la violenza. Peccato però che oggi al posto di Medea, di Clitemnestra, di qualsiasi altra donna incapace, in quanto tale, di dosare la violenza, ci sono Filippo Turetta, Alessandro Impagnatiello, uomini che condividono quella stessa fragilità emotiva che per troppo tempo è stata banalmente attribuita alle donne. Ed è proprio questa contraddizione, questo atteggiamento costruito sul banale, che ci porta oggi, 25 novembre, a parlare di tutte quelle donne che non siamo stati in grado di salvare non tanto dalla violenza, quanto dalla banalità. Banalità con la quale sempre troppo semplicisticamente marchiamo un confine netto tra uomo e donna, banalità con la quale, esattamente come nel termine “violenza” utilizziamo l’accezione di maschile e femminile nel modo più improprio possibile. E infine banalità nel considerare debole la parte che quella violenza spesso non la usa, non perché non ne è in grado, ma semplicemente perché sceglie con consapevolezza di salvarsene. Probabilmente le moltissime donne uccise da chi diceva di amarle non sono riuscite a difendersi dalla violenza, ma senza dubbio sono e saranno sempre salve dalla banalità.
Preferisco dunque pensare questo giorno non come la giornata contro la violenza sulle donne, quanto piuttosto come la giornata contro la banalità, di cui la parte fragile è proprio quella che pensava di essere quella più forte.
Perché se liberarsi dalla violenza non sempre per le donne che ne sono vittime è possibile, per chi quella violenza la esercita scegliere di salvarsi dalla banalità può determinare un cambiamento.
Ludovica Di Pietrantonio
Redattrice L’agone