Invece che scrivere sui social “ma che ne sanno i giovani?”, sarebbe meglio raccontarglielo quel tempo che hanno vissuto i genitori e i nonni. Senza enfasi, senza voler stravolgere a tutti i costi con gli “effetti speciali” il ricordo del passato. Servirebbe dialogare, con le nuove generazioni, e far capire loro che dovrebbero lasciare uno “strapuntino” nella loro mente per dare spazio alla “memoria storica”. Che forse non hanno, presumibilmente per colpa nostra, di chi ha scavalcato gli “anta”. Che abbiamo lasciato fare, che siamo stati sopraffatti da quel “futuro” che, fra le altre cose, neanche sappiamo gestire. Nelle sale cinematografiche, in questi giorni, c’è “La grande ambizione”, protagonista assoluto Elio Germano, fra le altre cose premiato al festival del cinema di Roma. Il quarantaquattrenne attore romano indossa i panni di Enrico Berlinguer. E qui dimenticate subito la vostra idea politica, qui non è una questione di bandiere, fazioni, schieramenti. Berlinguer aveva una grande capacità su argomenti come geo-politica e lavoro, con una visione programmatica e di sviluppo per il Paese e per l’Europa. Qui potrei nominarne altri, di esponenti di una politica di altri tempi, vissuta da uomini mossi da grandi valori e prioritariamente alla ricerca del bene comune. Inoltre, qui aggiungo che non stiamo raccontando una favola, qui rammentiamo la politica degli anni in bianco e nero, quelli che – maledetti – non tornano. Potrei nominare chiunque di quell’epoca, ma non c’è lo spunto di un film. Potrei nominare Giulio Andreotti, ma spesso la sua figura è stata trattata – banalmente – quasi come una macchietta. Potrei scrivere anche il nome di Aldo Moro, per esempio, e per tacere di Sandro Pertini. Ma focalizzo le attenzioni su Berlinguer. Che era Segretario di partito e non leader. Non confondeva il suo ruolo con l’enfasi dell’etichetta, come del resto fan tutti i politici di oggi, nessuno escluso. Era Segretario di partito, e “viveva” un ruolo che lo faceva stare in mezzo alla gente. Che lo faceva parlare col popolo. Che ascoltava i bisogni, le lamentele, la rabbia. Non un “Cid campeador”. Un Segretario di partito. Che oggi non sarebbe stato all’altezza della politica nostrana, quella del “lui è peggio di me” o del “se lo fanno gli altri posso farlo pure io”. Che non aveva bisogno di far precedere il nome di battesimo da un’etichetta. Niente leader, niente cavaliere, niente dottorati. Semplicemente Enrico Berlinguer. Che morì in piazza, durante un comizio, davanti alla sua gente. Pardon, davanti al popolo. Perché Enrico era un personaggio trasversale, intrigava anche dall’altra parte, pure se neanche sotto tortura si sarebbe ammessa una cosa del genere. Rispettato perfino dall’antagonista Almirante. Che andò a Botteghe Oscure per omaggiare Berlinguer, morto poche ore prima. Da solo, nel feudo comunista, senza scorta. Il rispetto per la morte, il rispetto per il “nemico”. E due simboli del comunismo italiano, Nilde Jotti e Giancarlo Pajetta, che lo accolgono e lo accompagnano al feretro. E il missino che quando se ne va, dopo essersi inginocchiato davanti alla bara, che sussurra «non sono venuto per farmi pubblicità, ma per salutare un uomo estremamente onesto». Ecco, la politica d’un tempo, quella che viene definita spesso con disprezzo “Prima Repubblica”, era questa. Era la politica che portava al voto il novantatré per cento degli italiani.
Massimiliano Morelli