Incontri in una casa che è molto più di una famiglia
Cosa sarebbe il Natale senza una favola; così tanto valore gli attribuisco quanto per me è importante poterne ascoltare una e magari saperla raccontare a mia volta. Ecco perché raccontandovi questa favola so di potervi accarezzare il cuore, proprio come riescono a fare alcuni racconti belli.
Fino allo scorso sabato, se mi avessero detto “Sottovento” avrei pensato a un termine aeronautico o afferente alla navigazione. Ho scoperto invece che Sottovento è una casa famiglia di Cerveteri, dove sono stata invitata per una visita. Ero scettica, pieni come siamo di preconcetti e pregiudizi, ho subito pensato che mi sarei andata a intristire a pochi giorni dal Natale in un posto anonimo e triste dove ragazzi meno fortunati sopravvivono senza affetti. Alla fine ho ritenuto di andare, pensando di portare un contributo e magari un sorriso.
All’ingresso di una suggestiva cascina di campagna mi ha colpito una targa: “Non mi avrebbe mai lasciato fuggire davanti alle lotte della vita aiutandomi a combattere”. Ero attesa dalla responsabile, Antonella D’Amico, che immaginavo come la signorina Rottenmeier del famoso cartone animato Heidi. Invece mi viene incontro una donna dal sorriso e dai modi senza età, leggera nei movimenti e nei pensieri, solida nei propositi. Entrando nella spaziosa abitazione e incontrando il suo team di collaboratrici e collaboratori, ho pensato invece alla tavola rotonda di Re Artù, dove non era previsto un posto di capotavola per il sovrano, ma tutti avevano pari dignità e utilità per la causa comune. Sulla porta d’ingresso una seconda targa recita: “Dedicato a te, che hai iniziato questo lavoro con me dalla Terra e ora lo stai continuando dal cielo”. Con orgogliosa spontaneità Antonella mi ha raccontato come è nata la comunità per minori Sottovento: un progetto iniziato con il suo compagno di vita che le stelle hanno richiamato prima di poterlo vedere realizzato. “Anche per lui” dice la D’Amico “ho voluto portare a compimento il proposito di ospitare ragazzi allontanati o sottratti da famiglie disfunzionali. Cosa è diventata Sottovento, però, preferisco che ve lo raccontino proprio loro: i figli di questa grande famiglia”. Così ho conosciuto Giordano, Desirè, Donatello, Stefania, Fabrizio, Giulia, Davide, Mardya, Manuel, Dafne e Roberta, ragazzi dalla spontaneità inquinata dalla diffidenza, dai sorrisi inizialmente tirati in ragione di chissà quali carichi di sofferenza. Eppure educati, cordiali, dispensatori di un affetto immediato e istintivo, coesi come fratelli gemelli eterozigoti, apparentemente insieme ma persi in chissà quali mondi solitari. Avrei voluto fare a quei ragazzi così tante domande, ma quando Antonella mi ha mostrato un quadro posto sopra il grande camino della cucina spiegandomi che era stato realizzato da una ragazza, ospite qualche anno prima a Sottovento, le domande mi sono tutte morte in gola perché un grumo di respiro congestionato stava per sciogliersi in lacrime. Incorniciata vi era la federa di un cuscino con su scritto in una grafia gentile: “più volte nel corso della vita avevo perduto all’ultimo momento, nuotando in un oceano e affogando tra le onde che si frangevano. Sottovento, dove il cielo non è mai spento, dove sorridere è vivere, dove la pazzia non è anomalia”. L’autrice lo aveva dipinto nel reparto di neuropsichiatria infantile dell’ospedale Bambino Gesù. Avendo percepito la mia commozione, ognuno di quei ragazzi la risposta a quelle domande mai formulate me l’ha data lo stesso.
“Per molti sarò un pazzo, sì un pazzo perché molti non comprendono la mia irregolarità. In fondo non sono mai stato regolare e non lo sarò mai, perché non voglio essere uguale agli altri, che purtroppo sono vuoti dentro”. L’ha scritto su un foglio quel ragazzo timido, impacciato, orgoglioso della sua diversità. Un oceano di sensibilità è passata negli occhi di quel giovane mentre scriveva. Come per un effetto domino miracoloso ognuno di quegli altri ragazzi ha preso un foglio e ha scritto il suo messaggio in bottiglia da affidare alle correnti dei mari, a beneficio dei fortunati che potranno leggerli e sapranno interpretarli.
“La droga è solo l’affetto mancato che ti riempie”.
Ecco la rabbia, il dolore che morde, lo sfogo necessario.
“La vita è piena di ostacoli, ma non importa quanti ce ne siano, non importa quante volte cadi, l’importante è finire il percorso”.
Ecco la resilienza, la tempra forgiata dalla sofferenza, la determinazione di chi non pensa di fare le cose “solo se” ma “nonostante”.
“Cercando in un ragazzo l’amore di un padre”.
Ecco la solitudine degli affetti, il bisogno di un amore tradito, il desiderio di vedersi restituiti dal destino qualcosa di prezioso di cui si è stati derubati.
Ognuno di quei biglietti lo leggevo sempre in maniera più sfocata, effetto di rifrazione delle lacrime trattenute. E quindi ho iniziato ad accarezzare quei foglietti, come se volessi con quei gesti immediati e istintivi, risarcire ognuno di quei ragazzi di un amore dovuto e negato.
L’ultimo me l’ha consegnato una ragazza dagli occhi vivaci, giovane ma grande, quasi principesca: “la gioia è una scelta di vita, di affrontare tutto a testa alta. La scelta di vivere felici è una forza”.
Ero entrata scettica, sono uscita frastornata. Volevo portare un sorriso, invece me ne sono portati via tanti: quello dei ragazzi, degli educatori, di Antonella, quello riflesso da ogni angolo e ogni oggetto di quella casa multicolore e promiscua. Salutando Antonella, avendo percepito il mio stupore commosso, mi ha detto “se tu questo lo prendi come lavoro sopravvivi due o tre mesi, poi scoppi. Diverso è se questo è un discorso di scelta di vita, completamente diverso”.
Come in ogni favola che si rispetti in chiusura sarebbe necessario un “e vissero felici e contenti”. Pur augurandoglielo a ciascuno di quei ragazzi, temo che non conosceranno mai fino in fondo la felicità e la contentezza. Avrei voluto dirgli però, e spero di averlo saputo fare abbracciandoli uno per uno, che mi hanno raccontato la più bella favola mai raccontata, della quale ognuno di loro è il protagonista e il narratore. Sappiano che il finale della favola lo potranno sempre riscrivere con quello che hanno nel cuore, e quella di ognuno di loro sarà una favola meravigliosa.
Ludovica Di Pietrantonio
Redattrice L’Agone