11 Febbraio, 2025
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Ricordo di un silenzio assordante

A un anno dalla deflagrazione di un’abitazione di Canale

Alle 8,28, un anno fa, a svegliarmi ci fu un boato. Alla stessa ora, stamattina, sono uscito in giardino e mi sono messo in ascolto.

Silenzio.

Stesso tempo uggioso e piovigginoso di un anno fa ma a regnare sul paese c’è la quiete della mattina di festa.

Fui tra i primi a raggiungere quel cumulo di devastazione e macerie che fino alla sera prima era stato uno dei caratteristici scorci del centro di Canale, peraltro adiacente all’abitazione di mio padre.

I ricordi si accavallano, scuotono la pelle di brividi, a prevalere è la memoria sensoriale: un pregnante odore di gas e un silenzio surreale.

I pochi accorsi stavano in silenzio, attoniti, ognuno occupato con le prime, disperate operazioni di soccorso. Ma in silenzio, ogni parola era inibita dallo spavento, dalla sorpresa, dall’incredulità, dai conti che andavano fatti con quella abominevole realtà; assenza di rumori, se non quelli del calpestio dei detriti di passi incerti e volenterosi, che risulteranno determinanti a limitare la catastrofe non offrendo alla sventura alcun contributo di vite umane.

Annusando la bruma del mattino, mi rendo conto che il silenzio tutt’intorno mi riporta solo il ricordo di un silenzio.

Quello degli occhi dei proprietari di una casa che non c’era più, scampati alla morte per una combinazione di fattori casuali incredibili; il silenzio dell’attesa che venisse estratto il loro giovane figlio, rimasto intrappolato per oltre un’ora sotto le macerie di quella che era stata la sua cameretta.

Il silenzio degli occhi vuoti di quel ragazzo, appena disseppellito da quella sepoltura provvisoria a cui si contrapponeva il silenzio di quegli angeli vestiti di verde inzuppati di professionale emozione.

E poi l’assenza di parole da parte del sindaco e del parroco, anche loro tra i primissimi ad accorrere, solo suoni scomposti e necessari.

Il silenzio delle decine di persone che si aggiravano incredule tra quei cumuli di frantumi, appena consapevoli di essere rimaste senza casa.

Il silenzio della signora anziana che nell’ingresso devastato di quella che non c’era più, cercava di spolverare un mobile.

Il silenzio di una donna che si preoccupava che stava piovendo e lei aveva lasciato aperta la finestra del suo appartamento, quasi non volesse vedere che non aveva più il tetto.

Incedibile come di un’esplosione fragorosa e frastornante, delle sue devastanti conseguenze, della paura, dello sconforto, dei danni, della infinita gamma di emozioni diverse di ognuno, a rimanere sia solo il ricordo di un silenzio assordante.

Un film muto in bianco e nero, sequenze nitide di un orrore inatteso, disperazione ancora inconsapevole dell’effettivo computo dello sfacelo.

Da quel silenzio passa la speranza che quanto è stato demolito potrà essere ricreato più solido e più funzionale, silenzio incubatrice di speranza che dall’afflizione si può risorgere ed essere ammessi alla gioia delle piccole cose.

Chissà perché al valore pieno e sacro della vita, sia possibile essere ammessi davvero solo dopo aver stazionato nella insonorizzata sala d’attesa della morte.

Le impalcature di oggi, quei teli a copertura dei ponteggi di una ricostruzione possibile, sono il postulato di una rinascita, di una seconda possibilità per cui essere grati alla Provvidenza.

Posa in opera di mattoni di un rifacimento di sè stessi di fronte alle circostanze della vita, una rivalutazione delle priorità, di ciò che vale anziché ciò che conta.

Il valore della luce per chi è miracolato dalla cecità, la possibilità di apprezzare le sfumature per chi a mala pena riusciva a distinguere i colori, daltonismo emotivo di giorni vissuti troppo in fretta.

Il silenzio, quello spazio possibile dove sostituire i gesti alle parole, fonemi troppo spesso inutili, incontrollati, offensivi, improduttivi. Silenzio.

Gianluca Di Pietrantonio
Redattore Lagone

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