Una fra le caratteristiche più vistose dell’economia di oggi è l’ossessione per la crescita. Crescita economica e tecnologica sono viste come essenziali praticamente da tutti gli economisti e i politici, anche se oggi dovrebbe essere piuttosto chiaro che un’espansione illimitata in un ambiente finito può condurre al disastro. La crescita, infatti, ha creato molto benessere, soprattutto materiale, nei paesi occidentali e molta povertà e altri disastri nel resto del mondo. Ultimamente, nei paesi più ricchi essa ha creato un divario tra classi sociali, con il conseguente ridimensionamento del ceto medio. Questa diseguaglianza sociale non è un fatto accidentale ma è un aspetto intrinseco della struttura stessa del nostro sistema economico. Infatti, l’economia fonda i suoi modelli e le sue teorie proprio su un certo sistema di valori e su una certa concezione della natura umana, alla stregua delle scienze sociali. Semplificando, possiamo mettere a confronto due sistemi economici che incorporano valori e obiettivi completamente diversi. Uno è il nostro attuale sistema materialistico, in cui il “livello di vita” è misurato dall’entità del consumo annuo, ovvero dal PIL (Prodotto Interno Lordo), e che si sforza, perciò, di conseguire il massimo consumo unitamente ad un modello ottimale di produzione. L’altro è un sistema di economia “buddhista”, fondato sulle nozioni di “giusto sostentamento” e della “Via di Mezzo”, in cui l’obiettivo è di conseguire un massimo di benessere umano con un modello ottimale di consumo.
Ma cosa intendiamo per “benessere umano”? Prima ho fatto riferimento al PIL come indicatore di crescita nell’attuale sistema economico. Per capirci bene, se il consumo di risorse naturali e di energia diminuisce, se si riducono i rifiuti, il PIL diminuisce, ma il ben-essere migliora. Se un sano stile di vita permette di diminuire il consumo di farmaci, il PIL diminuisce, ma il ben-essere migliora. Se la collaborazione prevale sulla competizione, se sono create reti di solidarietà, diminuisce la necessità di acquistare servizi alla persona e diminuisce il PIL, ma il ben-essere della persona migliora. Insomma, pare evidente come l’eliminazione delle disuguaglianze sociale passi necessariamente attraverso una riduzione del Prodotto Interno Lordo e, con questo, ad una rivoluzione dei rapporti umani. L’individuo non è più lo strumento per mantenere alto il capitale, ma il contrario. Non più l’individuo come “cosa”, ma come “persona”.
Nel modello sociale ed economico occidentale, invece, basato appunto sulla crescita, i rapporti con se stessi e con il mondo sono stati impostati sulla competizione. Se da una parte si è potuta valorizzare la spinta verso il successo, verso la riuscita nella vita, dall’altra sono stati sacrificati la solidarietà e il rispetto dell’altro, visto troppo spesso come terra di conquista, o come interferenza alla propria ambizione.
La convinzione della necessità di una crescita continua è la conseguenza di un risalto eccessivo dato a qualità tradizionalmente ritenute “maschili”, come l’espansione, l’autoaffermazione e la competizione. Essa è un riflesso del pensiero lineare ma erroneo, che se qualcosa è buono per un individuo o per un gruppo, quanto più ce ne sarà, tanto meglio. Si crede comunemente che ogni crescita sia buona senza riconoscere che, in un ambiente finito, dev’esserci equilibrio fra crescita e declino. Mentre alcune cose devono crescere, altre devono diminuire. La maggior parte del pensiero economico moderno si fonda sulla nozione di crescita indifferenziata. L’idea che la crescita, a certi livelli, possa essere paralizzante, insana o patologica non è presa in considerazione. Da una situazione di produzione e consumo eccessivi di beni materiali, la crescita dovrebbe essere incanalata in aree di servizio pubblico, come i trasporti, l’istruzione e la cura sanitaria. Questo mutamento dovrebbe accompagnarsi, inoltre, ad un cambiamento d’accento fondamentale, dal bisogno di acquisizione di beni materiali alla necessità di una crescita e sviluppo interiori.
In altre parole, non si dovrebbe parlare solo di capitale economico, inteso come risorse sottratte al consumo e investite per un futuro, in vista di un maggior guadagno, ma anche di capitale sociale, ovvero le risorse che accumuliamo interagendo con gli altri, di capitale culturale e perché no? Anche di capitale psicologico, o di “crescita psicologica”, intesa come accumulo di gratificazioni, attraverso l’esercizio di potenzialità e virtù.
Quest’atteggiamento, alternativo ad una crescita economica indifferenziata, è stato sostenuto negli ultimi anni dal Movimento per la Decrescita Felice (MDF), fondato il 15 dicembre 2007, da Maurizio Pallante. Il simbolo scelto da questo Movimento è l’ape “Pilli”, intenta, guarda caso, a “tirare giù” il PIL (per maggiori dettagli vedere il sito www.decrescitafelice.it).
Il Movimento nasce in ambito economico, ma travalica subito in quello filosofico e anche psicologico. E’ una rivoluzione culturale che non accetta la riduzione della qualità alla quantità. Non ritiene, ad esempio, che la crescita della produzione di cibo che si butta, della benzina che si spreca nelle code automobilistiche, del consumo abusivo di farmaci, comporti una crescita del benessere perché fanno crescere il Prodotto Interno Lordo, ma li considera segnali di malessere, fattori che peggiorano la qualità della vita. La decrescita non è la recessione. E non s’identifica nemmeno con la riduzione volontaria dei consumi per ragioni etiche. La decrescita è il rifiuto razionale di ciò che non serve, che non porta a dire “ne faccio meno perché è giusto così” (motivazione ideologica), bensì dice: “non so cosa farmene di questo….e non voglio spendere una parte della mia vita a lavorare per guadagnare il denaro necessario a comprarlo”.
Pensiamo invece a quante energie spreca l’uomo nel perseguimento irrazionale di acquisti compulsivi (specie in ambito tecnologico), ponendosi in modo del tutto passivo rispetto all’offerta di mercato, convinto di aver fatto il giusto “investimento”, come viene abilmente rappresentato in un’opera di Fausto delle Chiaie, dal titolo, appunto “Investimento sicuro”.
Premesso che si tratta di un’opera insolita, come insolito è il suo autore. Infatti, da oltre vent’anni Fausto delle Chiaie è l’ideatore e l’unico artista ad esporre le sue opere al “Museo all’aria aperta” di Roma, nei marciapiedi tra l’Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto. Egli si definisce “il custode, il curatore, il trasportatore, l’allestitore, il fotografo, il pubblicitario, il direttore, l’opera stessa”. Da sempre, nella sua carriera, il luogo, il contesto, l’arredo urbano, una pianta, un oggetto abbandonato, un cartellone pubblicitario, una pozzanghera, un determinato odore, dell’erbaccia, diventano parte o opera in sé. L’altra sua originalità sta nei titoli che spesso assegna alle sue opere, che per lui sono il primo elemento dell’opera stessa, talvolta ambigui, ma sempre portatori di riflessioni. Per quanto riguarda l’opera citata, Delle Chiaie disegna una linea sul marciapiede in direzione della strada, su cui lascia un pugno di monete di poco valore. In questo caso, il “visitatore” inconsapevole, vedendo le monete, si accinge a raggiungerle e prelevarle, rischiando di essere letteralmente “investito” dalle macchine o forse, sarebbe meglio dire, dai propri bisogni irrazionali. Cosa c’è di più irrazionale che rischiare la propria vita per alcuni centesimi? Eppure è questo che facciamo ogni qual volta, sprechiamo la nostra energia per comprare qualcosa di cui “razionalmente” non abbiamo bisogno. Ma quel che è peggiore è il nostro gesto metaforico di “chinarci” di fronte ai soldi, al capitale: questo accade perché non riconosciamo più il valore delle cose e, soprattutto, non riconosciamo il valore della nostra vita, gettandola in mezzo ad una strada, sprecandola.
E’ l’importanza che il denaro riveste per le persone, più del denaro in sé, a influenzare il benessere. Il materialismo sembra proprio essere controproducente: a ogni livello di reddito, chi attribuisce al denaro più valore che ad altri obiettivi, è meno soddisfatto della propria vita in generale, sebbene il preciso motivo resti un mistero.
La psicologia a orientamento umanistico-esistenziale ha sottolineato in modo molto chiaro che i disturbi psicologici cessano di avere una funzione nel momento in cui le persone sono consapevoli del loro valore e si sentono libere di esprimere la loro ricchezza interiore. La persona che si piega al bisogno di acquisizione materiale, non vede la propria ricchezza interiore, non è consapevole del proprio valore, perde il contatto con se stessa, sprecando molte delle proprie energie che ha a disposizione.
Nell’attuale modello economico e sociale, infatti, l’uomo spreca moltissime energie. Ne è una testimonianza, l’aumento dello stress, del burn-out, del mobbing, del bullismo, e della depressione e dei comportamenti di abuso (droghe, sesso, acquisti compulsivi), e in generale dei comportamenti di consumo esagerato.
Perciò è essenziale, per l’uomo e la donna di oggi, modificare lo stile di vita e sviluppare la “sobrietà” attraverso un cammino di decrescita. Essere sobri, quindi, e possibilmente chiedersi, prima di intraprendere un’azione, qualsiasi essa sia, che significato ha quell’azione e quanta energia richiede.
A questo proposito è fondamentale la distinzione tra “vita piacevole”, impostata sui piaceri, e “benessere”, che si caratterizza per la presenza di gratificazioni. Mentre noi moderni abbiamo smarrito la distinzione tra piaceri e gratificazioni, gli antichi greci ne avevano un’acuta consapevolezza. Il “benessere” e la felicità che ne consegue non possono derivare dal piacere fisico, né essere indotta chimicamente, o ottenuta tramite scorciatoie. Può essere ottenuta esclusivamente attraverso un’attività finalizzata a scopi più elevati. Mentre i piaceri hanno a che fare con i sensi e le emozioni, le gratificazioni hanno a che fare con l’esercizio di potenzialità e virtù dell’individuo.
Non ha senso, perciò, perseguire il benessere o una “decrescita felice” se sono ancora attivi, in modo preponderante, i bisogni di acquisizione materiale, poiché questi saranno destinati ad essere frustrati, alla fine. La decrescita sarà invece felice per chi ha bisogni più alti, e non vogliono essere sopraffatti dal bisogno di sopravvivenza. Entrando nel dettaglio, nel percorso verso una sana decrescita economica cambiano: le motivazioni, la visione interiore, la concezione del mondo e i rapporti interpersonali. Le motivazioni, che in un modello di crescita come quello attuale sono prevalentemente ego centrate, si sposteranno verso un’attenzione all’altro, e riguarderanno il benessere dell’intero pianeta. La visione interiore, improntata sulla sicurezza materiale e sulla paura di perderla, si sposterà verso valori di solidarietà, responsabilità verso la vita, anticonformismo. La concezione sarà di un mondo non più da depredare, ma da rispettare e considerare come un ambiente che respira, che vive, che è già predisposto per nutrire l’umanità, in modo naturale. I rapporti interpersonali saranno segnati da uno stile di rispetto dell’altro, indipendentemente dalla condizione sociale, dal sesso, dall’appartenenza ad una religione, ecc., vista la fondamentale interdipendenza di tutti gli esseri.
Tutto questo può sembra un’utopia, eppure esiste concretamente tra la gente una tendenza a voler creare un modello di vita centrato sulla condivisione e sul risparmio. Pensiamo, ad esempio, ad alcuni fenomeni sociali studiati da antropologi e sociologi, come il primo “Social Street” fondato in Italia, precisamente a Bologna, in via Fondazza, nel settembre del 2013. L’idea è nata a un residente, Federico Bastiani, giornalista, esperto di comunicazione. Decide di aprire un gruppo chiuso su Facebook e di stampare una cinquantina di volantini per coinvolgere anche chi non fa uso di tecnologia.
Tempo qualche giorno e i residenti hanno reso realtà l’economia condivisa mettendosi a disposizione l’uno con l’altro: ad oggi sono più di 350 mila gli iscritti al gruppo “Residenti in via Fondazza”. Da un giorno all’altra si è creata una rete di solidarietà. A Ferrara si sono già messi in moto in via Pitteri, a Milano ci sono i residenti di Parco Solari, e poi, di recente, anche a Roma nel quartiere Tiburtino.
Attraverso questi Social Street le persone offrono la propria disponibilità, il proprio tempo, aiuti concreti, opinioni, servizi. Qualcuno ha scritto che questo sistema è analogo a quello della “banca del tempo”. In realtà si va oltre questo concetto, perché “io faccio qualcosa per il mio vicino solo per il gusto di farlo, non voglio niente in cambio”.
Aiutare gli altri per il gusto di farlo produce molte sensazioni positive nella persona, quelle stesse sensazioni piacevoli procurate dalla droga, dalla cioccolata, dallo shopping, ecc. Ci si può procurare gioia semplicemente attraverso l’esercizio delle proprie virtù, come saggezza, coraggio, umanità, giustizia, temperanza e spiritualità. Virtù, queste, che hanno a che fare con le gratificazioni e non con i piaceri.
Ovviamente questo spirito di positività ha innescato lo sviluppo di una rete sociale dalla quale tutti possono trarre vantaggio. Il Social Street non richiede tempo o energia ma apertura verso gli altri e volontà di condividere. Appare chiaro che un fenomeno del genere rappresenta una “rivoluzione dolce” all’interno dell’attuale economia, spostando l’accento sulla cooperazione e sulla solidarietà: cose, queste, che fanno diminuire il PIL, ma aumentano il ben-essere delle persone.
BIBLIOGRAFIA
F.Capra, Il punto di svolta
M.E.P.Seligman, La costruzione della felicità
Aurora Capogna