22 Dicembre, 2024
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Coronavirus. L’«imperialismo» dei vaccini tra diplomazia e aiuti interessati

Cosa si muove dietro le quinte al di là degli

sforzi dell’Alleanza per una distribuzione solidale dei farmaci

 

Nell’estate del 1853 l’ammiraglio Matthew Perry guidò uno squadrone di navi dallo scafo dipinto di nero che irruppe nel porto di Tokyo per costringere gli shogun ad accettare di stabilire un rapporto commerciale fra il Giappone e gli Stati Uniti. Se non lo avessero fatto, questo il messaggio affidato al commodoro Perry e ai suoi cannoni dal presidente americano Millard Fillmore, le navi a stelle e strisce avrebbero bombardato la città. Cinquant’anni dopo venne adottato universalmente un termine per definire la volontà di espansione geopolitica delle grandi potenze. Lo si chiamò ‘imperialismo’.

A dispetto di quanto si possa credere, l’imperialismo non è mai passato di moda e i suoi fini sono rimasti immutati. Al posto delle cannoniere oggi ci sono strumenti di persuasione più sofisticati. Come il possesso di materie prime. O come i vaccini. Centosettant’anni dopo l’incursione di Perry, esattamente alle 6 del mattino di ieri, un Boeing 777 cargo della Turkish Airlines proveniente da Pechino è atterrato all’aeroporto di Istanbul con a bordo un lotto di 3 milioni di vaccini anti-Covid prodotti dalla dall’azienda cinese Sinovac Biotech. Altri 50 milioni di dosi dell’antidoto sono attese nelle prossime settimane, sempre a un prezzo di favore. Una replica di quanto avvenuto un mese fa nell’aeroporto brasiliano São Paulo-Guarulhos. Là ad attendere il cargo cinese c’era anche il governatore dello Stato di San Paolo João Doria. Si trattava di un carico prezioso e talmente strategico da indurre le autorità a scaricare rapidamente la carlinga del velivolo e trasportarne il contenuto in una località segreta. Ma difficilmente un carico di quella mole poteva sfuggire agli sguardi indiscreti del personale di terra. Perché a bordo del Boeing c’era una serie di container refrigerati che contenevano 120mila dosi di CoronaVac, primo lotto di una partita di 6 milioni di dosi del vaccino anti-Covid della Sinovac che fin dal suo primo apparire nella fase di sperimentazione ha offerto incoraggianti risultati, parzialmente riconosciuti anche dalla rivista The Lancet Infectious Diseases, vera e propria Bibbia della ricerca mondiale sui farmaci. Il resto del carico sarebbe arrivato poco dopo, in modo da poter essere utilizzato fin dai primi giorni di gennaio.

Con un vantaggio tecnico rispetto a vaccini consimili: il CoronaVac può essere conservato in un refrigeratore standard ad una temperatura fra 2 e 8 gradi centigradi, gli stessi previsti per un normale vaccino anti-influenzale, ben lontani da quei -72 che altri preparati richiedono. La bassa temperatura di sicurezza garantisce tra l’altro la stabilità del vaccino per almeno tre anni, rendendolo adatto al trasporto in luoghi remoti. In altre parole il CoronaVac made in China è un asset strategico. Come le armi da guerra, come i sistemi radar più sofisticati, come la cyber war.

Ma su quel Boeing c’era qualcosa di molto più importante di una semplice partita di vaccini. Le fiale di Corona-Vac sono un prezioso biglietto d’ingresso per la corsa alla presidenza del Brasile del sessantatreenne João Doria, rampollo dell’influente famiglia originaria di Genova e rivale dichiarato di Jair Bolsonaro. Con la sua crociata contro l’aborto e la depena- lizzazione delle droghe il governatore Doria punta a sfidare nel 2022 Bolsonaro. E una delle armi sarà proprio il CoronaVac cinese, da opporre all’AstraZeneca, che Bolsonaro, dapprima negazionista, quindi – a fronte di un’ecatombe nazionale che finora ha fatto 175mila vittime – ha scelto, convertendosi alla necessità di una vaccinazione di massa.

Accanto all’accaparramento da parte dei Paesi ricchi, Cina e Russia utilizzano i loro antidoti anche per allargare le rispettive sfere di influenza geopolitica

Come s’intuisce, non si tratta soltanto di una legittima competizione commerciale fra due aziende. Big Pharma ci ha abituato a simili scenari. Già una decina d’anni fa un rapporto di Eurispes parlava di ‘imperialismo sanitario’, dal momento che le prime dodici compagnie farmaceutiche mondiali erano concentrate in pochi Paesi, su tutti gli Stati Uniti, seguiti da Russia, India, Canada, Israele e, da non molti anni, la Cina. Un ‘ moloch’ oligopolistico, in grado di orientare e condizionare la salute di milioni di individui. Grazie soprattutto a una poderosa offensiva di marketing, perché principale (ma diremmo unico) scopo delle aziende farmaceutiche è quello di vendere i propri prodotti.

Oggi però siamo a un salto di qualità. E mentre da Macron a Putin, da Xi Jinping a Modi tutti a parole proclamano – sulla scorta dell’appello lanciato fra gli altri dalle organizzazioni della People’s Vaccine Alliance – la necessità etica del vaccino come ‘bene pubblico globale’, nel retrobottega della politica e dell’industria farmaceutica si affilano le armi. Perché chi offre e somministra il vaccino guadagna e conquista potere e influenza. La Cina lo ha compreso fin dai primi momenti. La partita di giro è a suo modo semplicissima. Secondo uno studio di Airfinity, i Paesi ricchi, nei quali risiede il 14% della popolazione mondiale, hanno già acquistato il 53% di tutti i più promettenti vaccini sul mercato. Viceversa 67 Paesi a basso e medio- basso reddito come Kenya, Myanmar, Nigeria, Algeria, Pakistan e Ucraina, dove si registrano oltre 1,5 milioni di contagi, rischiano di essere lasciati indietro. Ed è qui che la Cina, ma anche la Russia, offrono e offriranno a prezzi scontati i propri CoronaVac, il proprio Sputnik V. Un’offerta allettante, già presa in considerazione oltre che dal Brasile da Argentina, Uzbekistan, Bielorussia, Messico, Ungheria.

In particolare la Cina punta ad affermarsi sul proscenio mondiale come grande potenza tecnologica oltre che come insostituibile partner commerciale. Perché la concessione del vaccino reca con sé un indotto fatto di refrigeratori, magazzini di stoccaggio, sistemi di distribuzione, presidi sul territorio per la vaccinazione di massa. Una versione umanitaria – ma non certo meno intrisa di avidità – del ‘ land grabbing’, la corsa predatoria all’appropriazione di terre per la produzione di monoculture e l’estrazione mineraria, di cui la Cina è campione mondiale, seguita a poca distanza dagli Stati Uniti, dal Canada e poi da Regno Unito, Russia e Svizzera. Una corsa che secondo la Focsiv non è del tutto estranea al diffondersi della pandemia, vista la sistematica distruzione degli ecosistemi e il conseguente cambiamento climatico che il ‘ land grabbing’ può provocare. Ma poiché pecunia non olet, il business planetario ha investito il vaccino del medesimo crisma delle materie prime. Come fino a oggi il petrolio e gli idrocarburi hanno potuto condizionare la vita economica di un Paese (pensiamo soltanto a come Hugo Chávez per anni sostenne finanziariamente Cuba regalandole vasti cespiti della propria produzione petrolifera in cambio dell’eccellente assistenza medica che L’Avana poteva assicurare al disastrato e arretrato sistema sanitario venezuelano, senza contare gli effetti degli choc petroliferi, su tutti quello del 1973), nel prossimo futuro chi gestirà e aprirà i rubinetti dei vaccini conquisterà posizioni di forza e di preminenza.

Dalla Turchia al Brasile, dal Kenya al Pakistan, dall’Argentina all’Ucraina si espande l’offerta a prezzo vantaggioso di nuovi ritrovati per prevenire il Covid. Una cessione che non è solo business C’è anche il rischio che vengano testati sulle nazioni considerate politicamente più fragili gli effetti dei nuovi ritrovati

Non è tutto. In questa pelosa operazione caritatevole che vede cinesi e russi (ma non soltanto loro) pronti ad offrire a prezzi competitivi il proprio vaccino ai Paesi meno fortunati s’intreccia uno degli aspetti meno nobili (per non dir altro) di Big Pharma: quello di testare sulle nazioni considerate politicamente più fragili gli effetti sperimentali dei nuovi ritrovati. Lo aveva descritto con impietosa esattezza John LeCarré (scomparso poche settimane or sono) nel suo The Constant Gardener, storia di un vaccino contro la tubercolosi testato in Kenya sulla popolazione ignara ed inerme, con effetti letali per molti dei pazienti. Perché fino a questo momento un velo sottile di opacità attornia molti dei preparati russi e cinesi. «A priori – dice Cecil Czerkinsky, direttore della ricerca Inserm presso l’Università di Nizza – tutti i vaccini testati su larga scala funzionano, ma non sappiamo per quanto tempo proteggono. Anche perché le comunicazioni dell’industria sono principalmente dirette ai mercati finanziari piuttosto che alla comunità scientifica».

«Le informazioni scientifiche disponibili sui vaccini cinesi o russi probabilmente non sono false – riconosce Brigitte Autran, membro del comitato scientifico sui vaccini Covid-19 e medico dell’ospedale Pitié-Salpêtrière – ma lo è il modo di renderle pubbliche: mancano di precisione, trasparenza e rigore per essere sicuri. Senza contare il muro di opacità sull’etica delle sperimentazioni». E questo rimane il problema principale. Ma non per tutti, come si vede.

(Avvenire)

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