23 Novembre, 2024
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Così le donne aiutarono a liberare Genova, e l’Italia, dal nazifascismo

Le partigiane combattenti furono complessivamente 35mila e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della donna. In Liguria anche una brigata, la ‘Alice Noli’,  tutta al femminile

 

Sabotaggi, azioni armate, volantinaggio, intuizioni geniali, atti di estremo coraggio. Così, senza risparmiarsi, le donne di Genova hanno combattuto nella Resistenza, creando persino una Brigata tutta femminile che prese il nome di una di loro, “Alice Noli” che, come massimo tributo, nell’agosto del 1944 morì per permettere al cammino verso la Liberazione di proseguire.

“Senza di loro, senza queste donne, forse a Genova non sarebbe andata come tutti conosciamo”, ovvero con una resa da parte dei nazisti siglata il 25 aprile del 1945 a villa Migone dal comandante in capo delle truppe tedesche in Liguria, il generale Gunther Meinhold, e il CNL, e con una medaglia d’oro alla città per la Resistenza. A dirlo all’AGI è Massimo Bisca, presidente provinciale dell’Anpi di Genova che ha impiegato molti anni a ricostruire il contributo delle donne negli anni della Seconda Guerra Mondiale, attraverso documenti, testimonianze e reperti.

In Italia, secondo i dati raccolti dall’Anpi, le partigiane combattenti furono 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna; 4653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2750 vennero deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate, 1070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare.

Di queste, circa 700, sono liguri, 180 quelle che hanno composto la Brigata “Alice Noli”, almeno 60 con incarichi di direzione militare. Tamara, Carla, Nonnina, Fioretto, Elsa, Valeria e tante altre “hanno garantito capillarità, diffusione, ramificazione della lotta – dice Bisca – Negli scioperi delle fabbriche, ad esempio, gli uomini incrociavano le braccia davanti alle macchine, ma erano le donne a fermare tutto, staccando le spine.

C’erano quelle che si inventavano i modi per far piovere in fabbrica i volantini, senza essere beccate”. O chi, come Nina Bardelle, ex operaia all’Ansaldo ancora in vita, aveva il compito di lavare i pavimenti: in realtà buttava l’acqua sporca tra le assi dello stabilimento, sapendo che lì sotto erano stipati i bossoli da collaudare. Così facendo li rovinava e rallentava il lavoro.

Ma non è stato facile ritrovarle, conoscere le loro storie, ricostruirne le imprese: “Ci sono quelle che a fine guerra si sono fatte marcare e le hanno riconosciute” come partigiane, “ma molte altre no” dice Bisca. “Una come la dottoressa Albertina Maranzana, ad esempio, la prima a laurearsi in Medicina a Genova, non andò a marcarsi, eppure aiutò dei partigiani feriti in ospedale a scappare dai nazifascisti che aspettavano solo che si riprendessero per arrestarli e torturarli”.

Oppure c’era “la Vanda” di Sarzana, ricordata da un murales alla scuola Alighieri del comune spezzino: “Lei era una staffetta, una che ha sparato e ha fatto di tutto di più – ricorda Bisca – Ma finita la guerra, non poteva andare nemmeno alle riunioni di partito perché il marito non la lasciava andare. Ci andava lui al posto suo”.

A Genova 11 donne hanno ricevuto la medaglia d’argento e un quella d’oro

Solo a Genova queste donne hanno ricevuto 11 medaglie d’argento, una d’oro. Ventisei furono quelle uccise durante la Guerra. Donne che sarebbero rimaste invisibili se non fosse stato per il certosino lavoro di ricerca di Bisca e dell’Anpi.

Un lavoro che affonda le sue radici nelle fabbriche genovesi perché è lì che si comincia ad affermare il ruolo delle donne nella Resistenza: “A Genova c’era una forte presenza industriale: quasi 50mila occupati in 7 fabbriche. Di questi, più di 32mila erano in Ansaldo. Con la chiamata al fronte per gli uomini, in fabbrica vanno a lavorare oltre 6mila donne – racconta il presidente dell’Anpi genovese – Alcune lavorazioni venivano meglio a loro. Eppure, facendo lo stesso lavoro, veniva data indennità più alta all’allievo operaio rispetto ad una donna che faceva lo stesso lavoro dell’operaio. Questo le fece arrabbiare”.

E’ forse da ricercare in questo cruciale passaggio la particolarità della Resistenza genovese: “Oltre che lotta armata – sottolinea Bisca – ci fu la lotta sociale, con scioperi grandiosi: quando i primi operai vengono uccisi, le donne della Valpolcevera (la zona più industriale di Genova, ndr) fanno il giro di tutti gli esercizi pubblici per chiedere di abbassare le saracinesche in segno di lutto. Fu una cosa speciale – ricorda il presidente provinciale dell’Anpi – e questo rapporto tra fabbrica e quartiere nasce proprio grazie alla presenza delle donne”.

Non solo: il primo CNL di quartiere che nasce a Rivarolo non vede solo la presenza dei rappresentanti dei partiti antifascisti clandestini, ma ci sono anche una donna e un giovane, precursori dei gruppi “Difesa della donna” e del “Fronte della gioventù”:

“Nasce quindi l’idea di rappresentare la società civile” sottolinea Bisca. A testimoniare il ruolo crescente e cruciale delle donne nella Resistenza è il numero di quelle condannate dal tribunale speciale finché questo fu in esercizio, ovvero fino al 25 luglio del ’43, spiega Bisca: “Il 54% viene processata e condannata da quando comincia la guerra, ovvero da quando le donne entrano in fabbrica per sopperire alla mancanza di uomini. In più, le donne genovesi condannate sono 102 su 504, un grandissimo tributo di sangue”.

Donne incredibili, con storie affascinanti, alcune ancora in vita, come l’ultranovantenne Carla Ferro, che combatté il regime con il teatro: recita ancora oggi, in dialetto, alle Cinque Terre. “A Carla bombardarono la casa, nel quartiere genovese di Sampierdarena – racconta Bisca – Allora si spostò a Campo Ligure e, con suo fratello, che era renitente alla leva, mise su una compagnia teatrale, facendo credere ai fascisti di raccogliere soldi per la Croce Rossa (allora governata dal Regime).

In realtà a loro consegnava pochi spiccioli, mentre il resto, il grosso, lo portava a piedi da Campo Ligure fino a Capanne di Marcarolo e li dava ai partigiani della Benedicta”. Carla e suo fratello misero su un testo dal titolo “Aurora di libertà”: una volta finita la guerra, il CNL diede loro un treno con dei carri e lo spettacolo venne presentato in tutte le zone toccate dalla ferrovia Genova-Acqui. Quando dopo 57 anni dalla Liberazione è tornata a Campo Ligure, le fecero una gran festa e lei donò al Comune il manifesto fatto a mano dal fratello, che era la locandina dello spettacolo.

C’erano figlie di pescatori, operai, ma anche donne più agiate, come Elsa Pucci, che faceva l’impiegata. Il suo ingegno viene ricordato ancora oggi. Sua ad esempio l’idea di portare via la vasellina dalla fabbrica in cui lavorava per ingrassare le armi: suggerì alle donne di spalmarla sui corpetti. “Poi, con un soprabito leggero sopra, uscivano da Fegino, andavano in una casa lì vicino e toglievano lo strato di vasellina dai corpetti, per riempire i vasetti da mandare in montagna”, racconta Bisca.

Impossibile non menzionare anche l’audacia e la bellezza di “Valeria”: “Aveva il compito di recuperare l’esplosivo a Diano Marina, quindi girava con una valigia piena di tritolo – ricorda il presidente dell’Anpi – Quando prendeva il treno per tornare a Genova, andava dritta negli scompartimenti  riservati ai tedeschi e ai fascisti. Era talmente bella che le davano persino una mano per mettere a posto la valigia nella cappelliera, ignari che fosse piena di esplosivo. Le offrivano persino le sigarette, merce rara all’epoca. Ma non finiva qui: quando scendeva alla stazione di Sampierdarena, c’era da superare un posto di blocco, ma lei, tranquilla, chiedeva aiuto alla guardia e questo, ammaliato, le prendeva la valigia, le faceva attraversare il posto di blocco senza controllarla e le riconsegnava la valigia. Una volta al sicuro, andava in dei via dei Laghi dalla “Gigia” e, con lei, divideva le saponette di tritolo facendosi beffe dei controlli. Geniale”.

E poi ancora la “Nora” del Campasso, ovvero Eleonora Torre, fervida antifascista: durante la Resistenza aveva militato nella formazione SAP “Buranello”. Non può mancare la decorata con medaglia d’argento al valor militare Angela Michelini. E’ protagonista di un’azione armata in centro storico, a Genova: “Fa saltare una bomba in un bar frequentato solo da tedeschi – racconta Bisca – Un partigiano biondo si veste da tedesco, lei finge di essere la sua fidanzata, entrano nel bar, piazzano la bomba. Tornata a Cornigliano le dicono di buttare via il cappotto elegante, il tailleur e le chiedono di tingersi i capelli di biondo. Lei risponde secca: ‘i capelli biondi non me li faccio o mio padre m’ammazza’. Aveva più paura del padre che dei nazisti”.

E poi lei, Alice Noli, da cui la brigata di donne prese il nome due mesi dopo il suo omicidio. Alice era una ragazza vivace e con tanti interessi: dopo la strage della Benedicta, vide passare per le strade molti dei ragazzi arrestati sui monti, in procinto di essere deportati nei lager nazisti. Insulta fascisti e tedeschi e, insieme ad altri, raccoglie i cadaveri di quei 147 uccisi in montagna, dando loro un minimo di sepoltura degna.

La sua attività e il suo antifascismo non passano però inosservati: viene individuata e prelevata e, dopo una notte di atroci violenze, viene portata davanti al collegio delle suore dove aveva studiato per essere fucilata insieme ai suoi compagni. La tengono per ultima. Chiede di poter scrivere una lettera alla famiglia, ma le viene negato. Le sparano di fronte agli altri cadaveri, da sola, senza darle la possibilità di tenere la mano di nessuno. A lei è intitolata una scuola a Campomorone e una via a Sampierdarena.

Le donne della brigata ‘Alice Noli’

Le donne della brigata “Alice Noli” erano di ogni età: dalla più anziana – nome di Battaglia Nonnina, ovvero Uga Baduel – 72 anni, alla la più giovane, Adele Rossi, che di anni ne aveva appena 15 e muore in combattimento. E’ sepolta a Bolzaneto. Facevano di tutto: partirono col cucire i rapporti tra la fabbrica e i vari quartieri cittadini, fino alle azioni militari: “La vice comandante, Vincenzina Musso, nome di battaglia “Tamara”, il 26 luglio col marito Giovanni Porcù fa partire un corteo dal Campasso, arriva fino a quelle che allora erano le carceri di Sampierdarena insieme a mille persone, tutte donne in prima fila – racconta Bisca – Per tutto il giorno urlano, fanno una confusione bestiale con l’unico scopo di far liberare i prigionieri politici. Tamara è la stessa che nasconde le armi nel banco del lotto, che le trasporta nella rimessa dei tramvieri di Sampierdarena, che attraversa tutta la vallata, arriva a Pontedecimo e da lì fa arrivare il primo armamento del nucleo di Capanne di Marcarolo”.

E poi, dice il presidente dell’Anpi genovese, “le partigiane qui a Genova avevano qualcosa in più: in città come La Spezia le donne non vennero fatte sfilare nel maggio del 1945 per festeggiare la liberazione. A Genova le partigiane lo fecero, nonostante un autorevole comandante delle Sap disse loro che non stava bene sfilare con i pantaloni delle divisa perché avrebbero rischiato di essere giudicate come ‘poco di buono’. E’ stato allora che una delle ragazze della Brigata Alice Noli rispose secca: “Stanotte ci facciamo noi le gonne. Noi sfiliamo e guai a te se ti permetti di toglierci le armi che abbiam preso ai fascisti”.

Una determinazione che fu alla base della lotta per la conquista di diritti fondamentali come il suffragio universale, poi il divorzio, l’aborto. La tenacia delle donne della Resistenza è viva ancora oggi, nella memoria collettiva e nelle parole di alcune sopravvissute, ma le voci sono sempre meno: “Nel giro di 3 anni, solo nell’area della provincia di Genova, da più di 300 testimoni siamo arrivati a meno di 20.

Le donne resistono ancora, ma questo Covid ha falcidiato tanti partigiani – racconta Bisca – E ha terrorizzato i sopravvissuti. E’ emblematico il racconto di mia madre che ha 93 anni. Ha fatto la guerra qui a Genova ed è rimasta sotto le macerie della casa bombardata, a piazza Masnata. Mi ha raccontato che quando è uscita dalla cantina in cui si era rifugiata, ha potuto riabbracciare il fratello, superando un momento di paura enorme.

Questo gesto oggi ancora non si può fare e non avere la consolazione di un abbraccio quando si ha paura è devastante. Lo stesso Gianni Ponta, nome di battaglia “Gianni”, che era con i partigiani Buranello, Fillak, andato poi in montagna con la Brigata Oreste perché aveva 300mila lire di taglia sulla testa, diceva che nei momenti di disperazione ci si faceva coraggio abbracciandosi. Ecco, questo col Covid è venuto a mancare”. “Quando incontravo le partigiane, di fronte ai loro racconti rimanevo stupito – conclude Bisca – Erano temerarie, eppure tutte mi dicevano: ‘Cosa avrò mai fatto? Ho fatto il mio dovere. Nessuna di loro mi diceva ‘io avevo coraggio’, ma affermavano ‘non avevo troppa paura’”. Allora c’era un nemico ben individuato da combattere con astuzia, armi, sabotaggi, fianco a fianco gli uni degli altri, dalle fabbriche, ai quartieri, fin lassù in montagna. Oggi il virus terrorizza queste intrepide donne e questi coraggiosi uomini rimasti che liberarono l’Italia dal nazifascismo, perché spaventa di più qualcosa che non si vede, qualcosa che scava attorno la solitudine e l’oblio”.

 

(Alessandra Rossi – Agi)

 

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