Non è trascorso molto dalla Giornata della Memoria (27 gennaio), e – riflettendoci su – non è passato neanche molto dagli avvenimenti storici che hanno caratterizzato la prima metà del secolo scorso: ecco perché è di vitale importanza proteggere la Memoria. Lia Levi è riuscita a scampare alla deportazione nascondendosi nel collegio romano delle suore di “San Giuseppe di Chambéry” insieme alle sue sorelle. Oggi, il suo, è un nome che spicca tra le penne italiane: una donna che ha saputo raccontare e riportare il ricordo di quegli anni bui e di terrore. «È una storia d’invenzione», spiega in relazione al suo nuovo romanzo “Dal pianto al sorriso”, «ma è relativa a un periodo che abbiamo vissuto da bambini, insieme agli adulti, durante gli anni dell’occupazione tedesca».
Signora Levi, come ci si sente a “ritrovarsi” settant’anni dopo?
«La prima sensazione che ho avuto è stata la sorpresa, perché di solito trovi una cosa che credevi di aver perduto e invece questa volta io lo non sapevo affatto, perché è un qualcosa che io non ho mai cercato. Dunque la sorpresa è stata la prima delle sensazioni. E poi, certo, questa volta è stato particolarmente emotivo perché era stato scritto, come è anche riportato lì, a mano, nel 1944, ovvero poco la liberazione di Roma. La terza sensazione è che io ricordavo di averlo scritto, ma non ricordavo assolutamente cosa avevo scritto. Ero quasi sicura che avevo raccontato la mia esperienza, quella della mia famiglia, dei nove mesi di occupazione nazista. Ero sicura che quella fosse la mia storia, invece è un libro d’invenzione. Questa cosa mi ha colpito molto, perché l’ho letto da estranea; perché uno scrittore può dire: “Io volevo dire questo”, in relazione a un suo libro, e invece se non ti ricordi niente, lo leggi come un libro esterno: questa è una cosa molto curiosa».
Alla fine del romanzo c’è un dialogo che Lei ha con la Lia del passato: quali sentimenti prova nei confronti di quella donna che scrisse quel romanzo?
«L’idea di farlo sotto questa forma deriva proprio dal motivo di cui parlavo prima: non potevo dire “volevo dire”, “provavo” o “avevo in mente”, perché non lo ricordavo, questo testo. Quindi diciamo che era un libro esterno, un “libro terzo”. La cosa molto curiosa è che mi confrontavo con il testo di un’autrice molto giovane come se non fossi io. Mi sono sdoppiata, in poche parole. La storia però la racconta “lei”, io ho sempre detto “lei”, non l’ho fatto apposta o per spiritosaggine a dire “lei”. Non riesco a dire “io volevo dire che”, dico “lei voleva dire che…”, perché è un’autrice che non conosco».
Questo libro è destinato ai bambini dai dieci anni in su. Secondo lei, quanto è vivo e reale l’interesse delle nuove generazioni nei confronti di questi argomenti?
«Io dividerei il problema in due: la storia di per sé che è stata sia messa in copia anastatica com’era sia trascritta, va bene per i bambini perché è indirizzata a dei bambini. Tuttavia, il documento ha una curiosità per le altre generazioni, per gli studiosi, perché è un documento d’epoca. È scritto con l’inchiostro d’epoca, con la data messa sotto: è un ritrovamento che può interessare gli archivi, che sono fatti di tante cose. Io ho nipoti che sono oggi studenti universitari che non hanno letto il libro per la trama, ma sono stati colpiti dal documento. Tutto sta in una doppia funzione: storia per bambini, ma un documento per chi vuole conservare la storia di allora».
Il romanzo che lei ha scritto è frutto di un ritrovamento casuale ma, ricordare determinati eventi non deve essere un legato alla casualità. Come si può tramandare la memoria storica di quegli avvenimenti affinché non si ripetano gesti di discriminazione (che recentemente hanno macchiato le pagine dei quotidiani)?
«Ho scritto una lettera al bambino vittima di violenza da parte delle compagne, il Tg1 mi intervistò subito dopo l’accaduto. Lì ho subito scritto una lettera dicendogli che eravamo tutti dalla sua parte e che però, se proprio poteva esserci qualcosa che lo consolasse è che quando c’eravamo noi, noi della mia generazione, chi ci perseguitava era lo Stato. Lo Stato, quello doveva proteggerci. Invece qui no, lo Stato e tutta la società civile erano con lui. Volevo che si sentisse adesione della società. Per il resto, trovo che la parte migliore della scuola si occupa di Memoria. Sia per il Giorno della Memoria, sia per il resto. Continuano a venir fuori nuovi libri, nuove ricerche, molti viaggi nei campi di sterminio: la società si è mossa. Certo, parliamo della parte migliore, però, anche questi episodi molto negativi suscitano molta indignazione. Quindi, finché la gente è sensibile e continua a muoversi non per diffondere il male, ma l’attacco al male, mi pare che questo non sia un cattivo momento».
Lucrezia Roviello