Riflessioni e suggerimenti agli studenti e a tutti noi, in un momento difficile e molto triste
21 Aprile (appena vissuta, ndr) , 25 Aprile, 1° Maggio: si concentrano in 10 giorni le tre Feste civili italiane, significanti per la nostra identità di Popolo. Il 21 Aprile è il Natale di Roma, il 25 Aprile l’anniversario della Resistenza, il 1° Maggio la ricorrenza del Lavoro d’ogni tipo, manuale e intellettuale.
Fuori da ogni tentazione stupidamente retorica e/o vetero-nazionalista, ritengo attuali i vecchi versi del Carducci:
Se al Campidoglio non più la Vergine / tacita sale dietro il Pontefice,
né più per la Via Sacra il Trionfo / piega i quattro candidi cavalli,
questa del Foro tua solitudine / ogni rumore vince, ogni gloria,
e tutto che al mondo è civile, / grande, augusto, egli è Romano ancora.
Ecco, non si poteva dir meglio. Roma, nostra Genitrice, non è grande per i successi imperiali, ma per aver diffuso nel mondo la Civiltà, mediante la ricerca di quel che è “grande e augusto”, ossia di tutto ciò che dà senso all’eterno bisogno umano di sublimarsi nell’Etica e nella Conoscenza. Dante dirà più tardi:
Nati non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e cagnoscenza.
Un’eredità morale, quella di Roma, che riassumerei in tre eccellenze: la forza delle Istituzioni Democratiche e Repubblicane (almeno fin quando non giunse il Princeps), capaci, in condizioni disperate, di resistere ad Annibale; la virile dignità stoico-filosofica davanti ai soprusi del Potere, alle avversità, alla morte, come ci insegna Seneca con la penna e col suo personale esempio; la creazione del Diritto, per la convivenza pacifica tra Uomini con interessi antitetici, mediante l’immenso Corpus Juris Justinianeus, fondamento dei nostri Codici moderni.
Il 25 Aprile, a sua volta celebra la Resistenza del nostro Popolo contro un Oppressore straniero e un suo Governo fantoccio, quello repubblichino dell’ex-Duce, erede di una disastrosa Dittatura ventennale, che aveva distrutto il Paese, fisicamente, economicamente, moralmente. Fu tutto un Popolo a prendere le armi. A ribellarsi allo Straniero invasore e ai suoi Lacchè in orbace, lasciando sul campo un’immensa scia di eroismi, di sacrifici, di sangue. Un esempio luminoso fra tanti: i Fratelli Cervi.
Fu tutto un Popolo a restituirci un Onore, calpestato dalla fuga precipitosa e codarda del Re, col codazzo di Cortigiani, Ministri, Generalotes, Barbe-finte. Allo sbando i nostri Soldati e le Istituzioni. Ancor più torbida, anzi fraudolenta, la mancata difesa di Roma dalle Panzer-Divisionen. Era l’11 settembre ‘43, tre giorni dopo l’armistizio. Per molte ore, una marea di 400 Fiat, lunga parecchi chilometri e ben visibile dall’alto, intasò la vecchia Tiburtina, tra Roma e Pescara. Vi si stipò, un sull’altro, la crême dello Stato. In pavida fuga. Fu o no un lercio tradimento?
Il grande giornalista e scrittore Ruggero Zangrandi ne documentò ampiamente nel libro L’Italia tradita – 8 settembre 1943, uscito postumo nel 1971, per Mursia Editore. Ma qualche mese prima, al culmine del suo successo professionale e della notorietà internazionale (in un processo aveva sbaragliato i Servizi e parecchi “pezzi da 90” dello Stato, con le rivelazioni, appunto su 8-11 settembre), Zangrandi s’era poi incomprensibilmente ucciso con un colpo di pistola alla tempia, mentre la Compagna si gettava dalla finestra. Secondo i più intimi Amici, i due li aveva forse uccisi la nostra Intelligence, nel modo ad essa più congeniale, per “punirlo” di quel libro, ormai prossimo di stampa, e delle feroci polemiche che l’avevan preceduto.
Zangrandi rivelò infatti che la marea di automobili fu ben sorvegliata dalla nazi Luftwaffe, senza che la mitragliasse, perché S. M. avrebbe stipulato con le SS un patto segreto, vergognoso, indecente: “Voi mi fate tagliar la corda indenne; ed io in compenso vi lascio l’Esercito senza ordini, sì che voi invadiate tranquillamente l’Italia, Roma compresa; ed in più vi rivelo ov’è prigioniero Mussolini, affinché il Führer lo liberi, revocando ai Carabinieri l’ordine di ucciderlo”.
Che fellonia! S’innescò un’orrida guerra civile, a latere di quella militare.
Non meno codardo il miserabile tentativo di fuga dell’ex-Duce, travestito (che impudicizia!) da soldato tedesco. Perse ogni dignità, ogni decoro, ogni decenza. Non seppe imitare Antonio. E neanche Nerone. Ma la fortuna lo baciò fin all’ultimo. La dignità che egli non ebbe, provò a riappiccicargliela melodrammaticamente Claretta.
Fu la Resistenza, dunque, a restituirci l’Onore, dissipato da codardie, inettitudini e tradimenti sia del Re, sia dell’ex-Duce, sia dei Capataz dell’epoca. Fu la Resistenza (con le armi, non ghandiana!) a porre le basi della nostra Costituzione. Che ripudia la guerra. Ma non il diritto d’un Popolo di difendersi da un brutale Aggressore. E di aiutare l’Aggredito, rifornendolo delle armi di cui ha bisogno. Anche la nostra Resistenza ebbe bisogno di amichevoli rifornimenti d’armi…
E che dire infine del 1° Maggio? Si onora la fiera nobiltà del Lavoro, massima espressione del dinamismo produttivo, senza di cui non v’è progresso. Per molto tempo, con la nascita dell’industria, il Lavoro fu svilito e ridotto a merce, senza alcun rispetto umano, neanche per i Bimbi. Spesso il Potere sparò sulle Folle che chiedevano il pane. Il 1° Maggio 1886, a Chicago, ci furono gravi fatti di sangue. Il 7 maggio 1896, a Milano, il nostro Bava Beccaris sparerà coi cannoni sulla Folla, tumultuante per l’aumento del prezzo del pane. Oltre 300 i morti. Ricordate quante dure, sanguinose battaglie sindacali, per la giornata lavorativa di otto ore, e le 48 settimanali? Spesso si pativa sui telai fin a 10-12 ore giornaliere, senza sosta. E la mercede non bastava neanche a sfamarsi. Imperava la brutalità del Padrone. Sembra un lontanissimo medioevo, eppure è Storia di pochi decenni fa.
Dobbiamo ricordarlo sempre il significato del 1° Maggio, specie adesso che, con la scusa della globalizzazione, torna il lavoro precario, sottopagato e senza disciplina degli orari. In talune plaghe agricole del Sud è tornata addirittura una specie di schiavismo sugli Immigrati, gestito dal vecchio Caporalato mafioso. Un’indecenza contro cui lo Stato, dimentico della Costituzione, sembra impotente, anzi assente. O talvolta connivente.
Amedeo Lanucara, giornalista