23 Novembre, 2024
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Liberi di sentirsi sicuri. Pensando anche a Kafka…

La criminologia rimanda alla teoria del controllo sociale

Fin dai primissimi giorni di vita, l’essere umano persegue istanze di rassicurazione che sebbene scemando con la crescita, non smetterà mai di considerare indispensabili alla sua sopravvivenza. La psicologia ci consegna una vasta letteratura di teorie secondo le quali alla risposta favorevole di un’istanza del bambino, si consolidano l’autostima e l’equilibrio dell’adulto che sarà.

Un pilastro della psicologia evolutiva è la teoria dell’attaccamento di Bowlby secondo la quale la risposta favorevole della madre alle richieste di conferma e di aiuto del bambino durante l’esplorazione del mondo circostante, gli consente il progressivo grado di autonomizzazione rendendolo un adulto equilibrato e adeguato alla risoluzione dei problemi e degli imprevisti.

Mutua in natura, dunque, il concetto di sicurezza ovvero quella condizione “che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà ed evenienze spiacevoli”.

La percezione umana di sicurezza, dunque, passa attraverso la razionalizzazione degli istinti, intanto, per cui l’essere e il sentirsi al sicuro non sempre coincidono.

E’ necessario distinguere, poi, quanto l’uomo possa strutturare il senso di sicurezza dentro sé stesso attraverso strategie endogene o quanto riesca a garantirselo attraverso mezzi e situazioni esterne.

Al di là di spurie congetture teoretiche, e più che altro per dare un senso al mio impegno quotidiano, mi chiedo ogni giorno se possiamo ritenere di sentirci sicuri, oggi, nelle nostre vaste e complesse organizzazioni sociali, sempre più fondate sull’interazione tecnologica e virtuale a scapito di valori etici e morali del mutuo sostentamento ed empatica solidarizzazione.

Staremmo davvero più sicuri?

Davvero potremmo sentirci più sicuri se triplicassero le forze dell’ordine e le forze armate intorno a noi? Potremmo realmente stare più tranquilli se ci armassimo di più, se erigessimo più muri, se aumentassimo la diffidenza l’un per l’altro, se strutturassimo meglio il nostro progressivo isolamento proteggendolo con tecnologie 4.0?

Messo di fronte alle migliaia di impreviste e imprevedibili vulnerabilità umane che la mia professione mi consegna ogni giorno, sono sempre meno convinto che la risposta alle domande formulate sopra sia scontata.

Non ritengo che una città possa essere più sicura solo con più pattuglie, se chi abita dentro lo stesso stabile non solo non si saluta, ma non si conosce nemmeno.

Ho grossi dubbi che una nazione possa ritenersi più invulnerabile se rafforza i suoi eserciti, aumenta i suoi presidi e blinda i suoi confini ma non consente ai cittadini di crescere nel confronto con il diverso, con l’interazione e la solidarietà consentendo di alimentare il pregiudizio.

Non a caso la criminologia ci rimanda alla teoria del controllo sociale: una coesione degli abitanti della stessa area che esercitano una sorveglianza condivisa, possono scoraggiare e impedire i comportamenti devianti e le commissioni di reati socialmente riprovevoli.

Sono sempre più convinto che il nostro senso di sicurezza possa crescere senza dover passare dall’omologazione e che ognuno può essere architetto e costruttore della propria sicurezza purché riconosca valido quanto sostenuto da Kafka: “Spesso è più sicuro essere in catene che liberi”.

Gianluca Di Pietrantonio
criminologo forense

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