Non si era mai verificato con tanta frequenza. Il fenomeno non è locale, non è laziale, si verifica in tutta Italia, negli ospedali del sud, ma anche nel civilissimo nord orientale. Quindi ci deve essere un fattore comune, una ragione di fondo. Quale?
«Sono diversi i fattori che concorrono al manifestarsi del fenomeno e le cause sono intrinseche alla gestione organizzativa e a quella strutturale e non in ultimo alle modalità di comunicazione. Molto spesso si ricorre al pronto soccorso anche per prestazioni non immediatamente legate all’emergenza-urgenza, magari perché sul territorio non ci sono alternative.
La conseguenza è l’impossibilità di gestire tempestivamente i pazienti che afferiscono in pronto soccorso, e la sala d’attesa diventa quel luogo dove si mette in scena la disparità delle visioni degli operatori sanitari e dei pazienti, portatori entrambi di motivazioni più che valide, ma che non riescono a trovare un punto d’incontro. A risentirne è anche la sfera emotiva con l’instaurarsi di rapporti comunicativi tesi».
Si dice che il sistema sanitario scricchiola, che il pronto soccorso di un ospedale è il segmento più delicato, più fragile, ma anche il meno garantito sul piano delle risorse, degli spazi, del personale. Chi ha a che fare con il pronto soccorso è malato, è preoccupato, è in uno stato di forte ansia. La risposta del servizio non è rassicurante, non è adeguata. Scatta la scintilla della esasperazione e le conseguenze finiscono sui giornali. E’ così?
«Il pronto soccorso è la porta principale di ogni ospedale, è il luogo “di tutti” e dove si incontrano soggetti diversi accomunati da fragilità. E questo è già un motivo di criticità. Da un lato abbiamo operatori stanchi, con un carico di lavoro pesante da gestire tra mille difficoltà; dall’altra pazienti malati, impauriti e preoccupati, mal informati sulle dinamiche che governano i reparti di emergenza e che vivono il momento dell’attesa con sentimenti contrastanti che vanno dal senso di abbandono a quello di non sentirsi adeguatamente assistiti. Un mix che dà vita a momenti tesi, fatti di incomprensioni che sfociano in aggressioni più o meno gravi. Fatti che, comunque, fanno notizia proprio perché avvengono in un luogo dove l’imperativo è dare assistenza. Un’assistenza che prima ancora che sanitaria, alla luce dell’inasprirmi del fenomeno, deve essere emotiva».
Si dice che è una questione di sicurezza, di ordine pubblico. Che servono presidi fissi e adeguati. Basta questo? Si evita il pugno in faccia all’infermiere, non si riduce lo stress, l’ansia, la disperazione. Che altro si può fare?
«Con l’adozione della legge 113 del 14 agosto 2020 si riconoscono garanzie a tutela del lavoratore e si inasprisce la pena per chi oltraggia, offende e aggredisce un operatore sanitario. Ma mettere in campo soltanto azioni di tipo repressivo non serve a ottenere risultati duraturi. Se ci sono atti aggressivi che non possiamo prevenire, come quelli che si manifestano in presenza di pazienti particolari, tossicodipendenti o affetti da patologie psichiatriche, ci sono però una vasta gamma di situazioni che dobbiamo poter intercettare, prevenire e arginare. Ed è proprio su queste che l’impegno della Asl si sta concretizzando con l’avvio di progetti che interverranno sugli aspetti logistico- strutturali e organizzativi, senza però trascurare la sfera emotiva sia degli operatori sanitari che degli utenti».