21 Dicembre, 2024
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L’abolizione della carne coltivata è una vittoria per la zootecnia?

Martedì 28 marzo il Consiglio dei Ministri, tramite le parole del ministro dell’agricoltura, sovranità alimentare e foreste Francesco Lollobrigida e del ministro della salute Orazio Schillaci, ha approvato un disegno di legge per vietare la commercializzazione, la produzione e l’importazione di alimenti e mangimi definiti sintetici.

Nonostante il riferimento del disegno di legge sia generalmente allargato ad alimenti e mangimi di sintesi, il principale protagonista coinvolto è sicuramente la carne coltivata. La definizione di carne di origine sintetica è però incorretta da un punto di vista scientifico. Si tratta, infatti, di un prodotto ottenuto dalla crescita in vitro o in bioreattori di cellule staminali ottenute tramite biopsie non dolorose effettuate agli animali, il cui sviluppo è garantito da nutrienti e il cui risultato è un prodotto uguale alla carne, in quanto segue gli stessi processi microbiologici e fisiologici che caratterizzano la carne ottenuta in maniera tradizionale. Non è perciò un prodotto di sintesi, che, come da definizione, sarebbe invece tale se ottenuto partendo da una base non vitale, cosa che invece una cellula è.

Nonostante il disegno di legge approvato preveda l’impossibilità, e quindi il divieto, oltre alla produzione e commercializzazione anche all’importazione della carne coltivata, quest’ultima limitazione non potrà essere ottemperata in quanto andrebbe contro uno dei principi fondamentali del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) circa la libera circolazione delle merci, il quale cita: “Ogni prodotto legalmente fabbricato e commercializzato in uno Stato membro, conformemente alla regolamentazione e ai procedimenti di fabbricazione leali e tradizionali di quel paese, deve essere ammesso nel mercato di ogni altro Stato membro”.

A questo proposito risulta importante sottolineare come la carne coltivata non sia ancora un prodotto presente e la cui diffusione e commercializzazione è permessa all’interno di nessuno stato membro della comunità europea, in quanto l’EFSA non si è ancora espressa sul tema tramite report. Si è invece espressa a livello di possibile investimento per le aziende la Comunità Europea incentivando e co-finanziando alcune start-up interessate al tema della produzione di carne coltivata. Un esempio è l’azienda olandese RespectFarm il cui obiettivo è quello di unire la produzione della carne coltivata all’allevamento congiungendo la necessità di ottenere le cellule animali da soggetti sani all’aspetto culturale dell’allevamento, in maniera da evitare uno scontro competitivo tra le due realtà, ma anzi favorire una collaborazione per ottenere due prodotti egualmente validi, ma con due mercati differenti.

Data la situazione attuale in cui versa la carne coltivata, tra corsa agli investimenti e attuale mancanza del prodotto sul mercato europeo, si delinea il rischio per l’agricoltura e la zootecnia italiana di rimanere indietro circa le nuove possibilità che la tecnologia offre, privandosi della possibilità di capitalizzare su tale opportunità e rallentando inevitabilmente la ricerca sul settore, la quale non potendo avere un’applicazione diretta sul mercato si mostrerà meno appetibile nella penisola. La conseguenza è un suo possibile spostamento all’estero, al quale seguirà la mobilitazione di giovani ricercatrici e ricercatori che ne studieranno.

Tra le altre motivazioni espresse in sede del Consiglio dei ministri circa l’abolizione della diffusione della carne coltivata figura il principio di massima precauzione, stabilito nell’articolo 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Il principio di precauzione è un approccio alla gestione del rischio per cui, nel caso una determinata politica o azione possa arrecare danno ai cittadini o all’ambiente, nel momento in cui non vi sia ancora un consenso scientifico sulla questione, tale politica o azione non dovrebbe essere perseguita. Il principio di precauzione può però essere invocato solo in caso di rischio potenziale, e non può mai essere utilizzato per giustificare decisioni arbitrarie. Nel caso specifico della carne coltivata, nonostante l’EFSA non si sia ancora espressa in merito, è già presente un avallo da parte dell’FDA (Food and Drug Administration) per due aziende produttrici di carne di pollo proveniente da coltura cellulare: Upside Foods e Good Meats. L’FDA ha affermato con una nota del 20 marzo che al momento non vi sono dubbi sul fatto che gli alimenti composti da materiale cellulare di pollo coltivato siano sicuri come gli alimenti prodotti con altri metodi.

È ancora distante però la commercializzazione, anche in suolo americano, di tali prodotti, in quanto devono ora ottenere l’approvazione dell’Usda Food Safety and Inspection service, il servizio che fa parte del Dipartimento dell’Agricoltura americano, al seguito del quale si potrà dare il via libera alle vendite.

Affermare perciò che la produzione di carne coltivata comporti un rischio potenziale risulta anacronistico, in quanto non è supportato da evidenze scientifiche, ma soprattutto poiché si tratta di un prodotto non ancora disponibile alla commercializzazione in suolo americano né in quello europeo. Solamente dopo un’attenta valutazione scientifica e il via libera da parte dell’EFSA potrà entrare nei mercati nostrani.

Al netto di tutto questo risulta però comprensibile il timore del settore zootecnico circa la possibile introduzione in futuro di questa tecnologia alimentare in Italia, propagandata come un’alternativa meno impattante e più rispettosa del benessere animale a parità di valore nutrizionale. Il timore di un collasso economico e sociale del settore, soppiantato e superato dal nemico che giunge dall’estero, porta automaticamente ad un meccanismo di chiusura e rigetto di ciò che potrebbe rappresentare una minaccia per l’economia e la tradizione alimentare italiana.

Proprio in virtù di questo timore, il divieto di produzione, commercializzazione ed importazione (quest’ultimo per giunta in contrasto con i principi del trattato dell’Unione europea), porterebbe ad una maggiore polarizzazione del dibattito e ad uno schieramento in fazioni che vedono la produzione di carne coltivata in contrapposizione con l’allevamento tradizionale, contrapposizione che risulta accessoria, e anzi d’ostacolo ad una possibile collaborazione come già si prova a sperimentare in altri paesi europei con l’obiettivo comune di una riduzione dell’impatto del settore alimentare in relazione alla richiesta di sfamare un numero crescente di persone. (fonte Ruminantia)

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