Riflessioni sull’arduo contrasto alla violenza di genere
L’ultima “disgraziata” si chiamava Celine, aveva 21 anni e i suoi sogni di giovane donna sono stati stroncati a Bolzano qualche mattina fa. Da inizio anno sono 73 le donne uccise da quei maschi a cui avevano accordato condivisione d’intimità e quei sentimenti nobili di cui evidentemente quei bruti erano indegni.
Una domanda scomoda
Una domanda scomoda deve affliggere ognuno, anche se a titolo e con gradazioni diverse: com’è possibile che nonostante le continue revisioni normative e procedurali, le campagne di sensibilizzazione e l’impegno istituzionale, le migliaia di associazioni di volontariato, i centri antiviolenza e il loro faticoso e infaticabile operato le donne continuano a morire? Nella domanda la soluzione, probabilmente, ovvero dover prendere atto che trattandosi di episodi di esclusiva natura emotiva, non ne possono prevenire e prevedere le commissioni, o almeno non con le logiche tradizionalmente concepite per gli altri reati.
Vorrei bypassare le speculazioni già fatte sull’importanza dei processi educativi e culturali indispensabili da avviare tra le giovanissime generazioni e alle campagne di demonizzazione di ogni forma di violenza. Indispensabili, non v’è dubbio.
Genesi emotiva
La genesi emotiva della ferocia cieca di analoghi delitti, perdipiù, farebbe escludere le possibilità di emulazione conseguenti alla troppa o scorretta comunicazione a riguardo.
A tale proposito, anzi, vorrei condividere uno studio “epistemiologico” complesso che ho fatto nel 2016 e che si poneva l’obiettivo di stabilire se gli episodi di violenza di genere (quindi commessi in ragione dell’appartenenza a un genere piuttosto che all’altro, nda) in un determinato range di tempo, siano effettivamente aumentati o piuttosto del fenomeno se ne stia parlando semplicemente di più.
Il periodo di riferimento preso in esame è stato quello dal 1995 al 2015 e i dati comparati e analizzati sono stati raccolti dalle banche dati delle forze dell’ordine, delle Procure, dei sistemi di triage dei pronto soccorsi degli ospedali nazionali (gestiti dalla stessa società) e da alcune delle più accreditate associazioni antiviolenza.
Uno studio accurato
Lo studio, con minuziose suddivisioni territoriali (nord/centro /sud-isole, regioni, province e capoluoghi) ha restituito delle evidenze marcate di come tutti i reati (quindi non solo l’omicidio ma le violenze sessuali, i maltrattamenti, le lesioni, gli atti persecutori…) registrino una progressiva, graduale seppur lenta diminuzione dovendo considerare in termini statistici, purtuttavia, il margine ignoto costituito dal numero oscuro del sommerso.
Questo tenderebbe a dimostrare due cose: che parlare del fenomeno è utile soprattutto a far aumentare le denunce, ma anche per i riflessi socio culturali e legislativi che ne conseguono.
Uno studio che andrebbe aggiornato con i dati degli ultimi anni, certo, e che comunque usa i numeri per quantizzare la violenza quotidiana che ancora troppe donne sono costrette a subire quotidianamente; questo, ci si rende conto, potrebbe essere moralmente assimilabile a una forma di violenza a sua volta, o perlomeno di indegnità.
Uno spunto utile
Ma, oltre a dare uno spessore del fenomeno, potrebbe essere uno spunto per promuovere una ghettizzazione di massa di quegli individui, indegni di essere chiamati uomini, e li escluda dalla considerazione di qualsiasi donna, rendendoli assimilabili a scarafaggi ributtanti dalla dubbia utilità biologica; una sorta di patente di dannazione sociale, macchia proscrittiva di indecenza che serva alle donne di evitare i simil uomini e la loro auspicabile estinzione.
Gianluca Di Pietrantonio
criminologo forense