23 Dicembre, 2024
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Gianni Cuperlo, l’intervento alla Camera sulle Foibe

La legge che ha istituito il giorno del ricordo compie vent’anni.

Fu votata da quasi tutto il parlamento dopo che a lungo sulla pagina sanguinosa di quel confine era calato il silenzio.

Quel mutismo accomunava il partito di governo a Roma e l’opposizione comunista che sulle vicende dell’alto Adriatico non poteva dirsi spettatrice.

È stato scritto: “l’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”.

Ma ci si può odiare nell’intimità?

Purtroppo sì.

Con una premessa: che non si comprendono le violenze del novecento in quel triangolo d’Europa se ci si rinchiude in una storia “nazionale”, che sia quella italiana, slovena o croata.

La realtà è che a cavallo del confine orientale, prima, durante e dopo la guerra si sono prodotti veri e propri “fenomeni di sostituzione nazionale “.

Il che non paga una reductio, perché dietro la formula si sono consumati drammi familiari e collettivi prodotti da ideologie e regimi diversi.

Dapprima il fascismo decise l’allontanamento di molte migliaia di cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane dov’erano nati e vissuti.

Poi furono gli accordi di Parigi, il 10 febbraio del ‘47, a indurre l’esodo dall’Istria di decine di migliaia di italiani costretti a lasciare case e beni tra gli anni ‘40 e ‘50.

La verità è che “nella lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella nazionale no”.

Il nazionalismo è il concime che dissemina odi e contese destinati primo poi a deflagrare.

E così è avvenuto in una storia che va conosciuta: ma tutta!

Il 13 luglio 1920 le squadre fasciste incendiano l’Hotel Balkan (sede di organizzazione e istituzioni slave a Trieste).

È l’avvio di una persecuzione.

Gli sloveni si trovano catapultati nell’incubo che si prolungherà per il quarto di secolo a seguire.

134 edifici incendiati, circoli di cultura, case del popolo, Camere del lavoro.

Nell’aprile del 1927 il regime fascista impone la “restituzione in forma italiana” dei cognomi deformati in passato dalle autorità austriache.

Diciamo che il tentativo di sradicare l’identità di un popolo avanzò lungo il doppio binario di un’assimilazione delle anime mai sconnessa da una violenza sui corpi.

Il fascismo fu questo (e taccia per sempre chi rivendica che “fece anche cose buone “!).

Tra le vittime di quella repressione moltissimi cattolici, preti, parroci, vescovi, e l’esplosione dell’antisemitismo in una città, Trieste, ricca di una comunità ebraica tra le più importanti.

In quel contesto, un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio del 1930 presso “il popolo di Trieste “, quotidiano fascista, uccidendo un redattore.

Dopo un processo farsa, seguirono quattro condanne a morte: uno dei quattro, Ferdo Bidovec, era di madre italiana, come peraltro slovena era la
Madre di Guglielmo Oberdan a conferma che “per i patrioti di frontiera il sangue non conta un bel nulla”.

I quattro vennero fucilati il 6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza.

Lì il presidente Mattarella lì e quello sloveno, Borut Pahor, si sono raccolti in mano nella mano davanti alla lapide e lo hanno fatto subito dopo aver reso omaggio alla più nota foiba di Basovizza.

La seconda guerra mondiale scompose una volta di più assetti, etnie e comunità.

L’offensiva tedesca sulla Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò in una pagina tra più cruente.

Sul fronte opposto, i comunisti guidati da Tito animarono la resistenza anti-tedesca.

Dal ‘41 al ‘43 le azioni italiane contro le formazioni partigiane non esitarono a reprimere quantità di civili: non furono “danni collaterali”, ma una strategia mirata a isolare qualunque focolaio di resistenza.

Internamenti di massa condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di persone come a Gonars in Friuli o nell’isola di Arbe in Dalmazia.

Solamente cenni, ma servono a dare conto di un conflitto che sfocerà nella pagina ultima, quella che ci riconduce a questo giorno del Ricordo.

Dopo l’8 settembre anche la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del paese, comandi militari e truppe allo sbando.

La contro repressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo delle autorità partigiane con atti di sadismo e violenza cieca.

L’uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana seviziata e infoibata nell’autunno del ‘43, resta una delle pagine più atroci di quella stagione.

Alla fine della guerra in quel lembo del continente tra infoibati e uccisi dai nazisti e dei fascisti non vi era famiglia che non piangesse un lutto.

Nella parte finale della guerra il governo di Salò non aveva più alcun potere su sindaci i prefetti.

Le violenze una volta di più furono terribili.

Nell’aprile del ‘44 i tedeschi compiono una rappresaglia nel villaggio di Lipa, in provincia di fiume.

Una colonna scortata da ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri: perlopiù sono donne, anziani, tre bambine hanno meno di un anno, alla fine le vittime saranno 280.

Dall’ottobre del ‘43 all’aprile del ‘45 opera a Trieste la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio nazista nel nostro paese.

È gestito da SS tedesche e austriache: annovera “specialisti” del ramo, carnefici responsabili di buona parte della Shoah della Polonia: Kurt Franz, “il sadico torturatore di Treblinka” e Odilo Globočnik a cui si ascrivono almeno un milione e mezzo di morti.

Circa 700 ebrei triestini passeranno da quelle celle, se ne salverà una ventina.

Il primo maggio del 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste.

La tecnica che usano non è quella dei rastrellamenti di massa.

Ma gli arrestati sono comunque migliaia.

Non servono accuse provate, basta un sospetto, l’esito è una sequenza di uccisioni in molti casi senza alcuna imputazione e tantomeno colpa.

Il che spiega i motivi che condussero a morte finendo infoibati anche militanti della resistenza triestina.

L’Esodo dall’Istria e Dalmazia, ciò che il 10 febbraio ogni anno ricordiamo, è l’ultimo capitolo di questa storia tragica.

L’Esodo fu dramma vero, strappo e ferita non ricucibile.

Con gli anni passi nella direzione di una pacificazione si sono compiuti.

Per il poco che vale mi recai da Segretario dei Giovani Comunisti Italiani a deporre un mazzo di fiori sulla foiba di Basovizza.

Correva l’anno 1989, un anno prima l’aveva fatto Piero Fassino per la prima volta.

Più tardi gesti assai più autorevoli sono seguiti: dalla visita ricordata di Sergio Mattarella e Borut Pahor all’incontro del 2010 quando i presidenti d’Italia, Slovenia e Croazia resero omaggio al Narodni Dom e al monumento all’esodo istriano-dalmata.

Ciò che vogliamo rammentare in questo giornata è il bisogno di non cancellare il passato perché farlo equivale a gettare le basi perché possa ripetersi.

Ma non cancellare, già l’ho detto, equivale a conoscerlo e soprattutto capirlo.

Senza demoni in corpo.

Senza fantasmi a inseguire il presente.

Senza la paura di misurare la storia, i suoi torti, le sue ragioni.

Per chi come me è nato lassù o come Debora Serracchiani ci vive tutto ciò non può limitarsi a un augurio.

È semplicemente un dovere dell’anima.

E allora, bene alimentare tra i più giovani con borse di studio e viaggi di istruzione una conoscenza che possa farsi coscienza storica e maturazione civile.

Su questa frontiera ci troverete sempre su questi banchi consapevoli e disponibili.

Ma senza che alcuna parte pensi, dopo tanti decenni, di piegare la storia a proprio vantaggio offrendo nel racconto di quelle pagine alcuni capitoli solamente.

E sbianchettando il resto.

Perché, colleghe e colleghi, quello sì sarebbe l’ultimo sfregio alle vittime di un odio coltivato nell’incoscienza di guasti profondi.

Ci sono luoghi dove troppa storia ha avuto disposizione troppo poca geografia e quel lembo dell’Europa è uno di questi.

Facciamo in modo che almeno dentro quest’aula solenne, tanta tragica storia possa dare vita a una cultura della conoscenza, della consapevolezza e del rispetto.

Non per approdare a una memoria condivisa.

Ma per non calpestare mai più le memorie di chi ha sofferto lutti, odi, tragedie.

Ma rispetto significa anche non stravolgere le posizioni degli altri.

Ieri il vicepresidente di questa Camera ha accusato il Partito Democratico e la mia persona di negazionismo sulle vittime delle foibe e sull’esodo di istriani e dalmati.

Ha accusato personalmente me di volere (cito) “la surreale celebrazione di un dittatore sanguinario artefice della pulizia etnica attuata senza pietà sul confine orientale“.

Vedete colleghi, il punto non è che in commissione (come gli atti testimoniano) io e altri colleghi abbiamo espresso con chiarezza una posizione esattamente opposta.

Nessun negazionismo e nessuna rimozione da parte nostra di quelle pagine tragiche e quei termini scolpiti.

Il punto è che il presidente Rampelli non si fa scrupolo di vergare frasi violente quanto profondamente false.

E siccome oramai anche i giurì d’onore sembrano rispondere per voi a una logica di possesso, a me non rimane altro che rivolgermi oggi a quest’aula con la modestia e l’onestà di una storia per dire che su questi banchi non siedono negazionisti di sorta.

Ma casomai li indegni eredi di quei veri patrioti che ottant’anni fa hanno riconsegnato l’Italia alla libertà e alla democrazia.

E che hanno consentito con il loro sacrificio di veri patrioti al vicepresidente della Camera di offendere e calpestare la dignità di un membro di questa assemblea.

Con questo spirito e con l’amarezza verso chi oggi adopera la falsificazione e l’insulto, forse rimpiangendo qualcuno che da quel banco laggiù, quel banco del governo, pensò un giorno di poter trasformare quest’aula “sorda e grigia in un bivacco per i suoi manipoli”, con questo spirito democratico, repubblicano, antifascista io comunico il nostro voto favorevole.

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