Il dirigente scolastico analizza le cause di un malessere spesso invalidante
L’analfabetismo sentimentale racchiude la percezione che molti, troppi adulti hanno degli adolescenti I nostri giovani, quei ragazzi che noi viviamo a scuola ogni giorno, manifestano un disagio e una difficoltà ad affrontare con serenità la frustrazione e il fallimento che talvolta ci lascia disorientati. Eppure la mia esperienza di dirigente scolastico mi porta a fare un altro percorso per capire le cause di un malessere che diventa, troppo spesso invalidante.
La fragilità dei nostri ragazzi dice molto della fallimentare relazione educativa che noi adulti abbiamo costruito con loro: abbiamo, spinti spesso dal senso di colpa per il poco tempo che dedichiamo alla famiglia presi dal lavoro e dai mille impegni, a concedere di tutto, soprattutto il superfluo, a escludere il rifiuto come momento preminente di crescita e a presentarci, a ogni buon conto, come difensori strenui e acritici di qualunque loro mancanza o difficoltà.
Cresciamo “animali sociali” pronti a scendere nell’arena del mondo, ci preoccupiamo che sappiano difendersi, che sappiano essere furbi, che non si facciano fregare da nessuno, che calpestino gli altri per non essere calpestati. Il disinteresse per la cultura, per la lettura li ha condannati a conoscere un numero così esiguo di parole che ha limitato, di conseguenza il pensiero se è vero, come sostiene Heidegger, che riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola.
Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare. Sempre più spesso i genitori avviano i più piccoli alla scrittura e alla lettura sin dalla scuola dell’infanzia, incuranti dell’importanza di rispettare i tempi di sviluppo dei piccoli, fisici e psicologici, (vedi Piaget, nda) ma motivati a vincere la gara a chi raggiunge per primo traguardi attesi in età diverse. Assistiamo, spesso impotenti, a scelte educative che non si avvalgono delle competenze di chi lavora con e per i più piccoli.
E’ solo un esempio di come siamo sempre più orientati a educare per il successo, per l’affermazione personale, tralasciando del tutto la crescita affettiva e relazionale e l’obiettivo della felicità dei nostri ragazzi. Senza consapevolezza insegniamo ai nostri figli a identificarsi in un modello di perfezione, di successo e di buona riuscita che, troppo spesso, non prende neppure minimamente in considerazione le aspirazioni, le attitudini e i bisogni dei nostri ragazzi. Leggere una storia, guardare un film, ascoltare musica rappresentano gesti che educano alla bellezza e che concorrono a costruire una personalità attenta e sensibile, empatica e gentile. Ho avuto modo di sperimentare nei nostri studenti da una parte un male di vivere radicato e devastante, ma dall’altra un bisogno disperato di ascolto, di condivisione, di confronto, di presa in carico. Hanno bisogno di incoraggiamento, di essere guidati da adulti consapevoli e non giudicanti, adulti che accarezzino la loro fragilità e gli insegnino a partire da lì in un percorso di accettazione delle proprie debolezze. Ansia, depressioni, disturbi alimentari sono il frutto marcio dell’impossibilità di raggiungere un modello cinico e anaffettivo, di una perfezione che non appartiene all’essere umano La scuola non può sostituirsi alla famiglia e troppo spesso si perde di vista la corresponsabilità nell’educazione dei figli. Temo che questi giovani siano il riflesso delle fragilità di noi adulti, dei nostri fallimenti, dei falsi miti che ci siamo creati e che gli abbiamo trasmesso. Non sono loro ad aver perso la capacità di distinguere il bene dal male, a essere anaffettivi e apatici, siamo noi ad aver fallito come educatori. Non sono certo loro a popolare i social con la saccenza e la tuttologia dilaganti, con la demolizione sistematica di ruoli e competenze, con l’ignoranza travestita da libertà di parola. Non sono loro a picchiare medici, docenti, dirigenti se non trovano immediatamente risposte ai loro bisogni, no, non sono loro …siamo noi. Gli stessi che pontificano sulla loro anaffettività e sulla loro totale assenza di empatia deresponsabilizzandoci.
Il cambiamento che auspichiamo deve partire da noi, dobbiamo restituire al tempo non solo il valore del lavoro e del guadagno, ma soprattutto il valore della costruzione delle relazioni, della condivisione e di un amore che si nutre dei nostri sentimenti. Ripartiamo da qui.
Lucia Lolli