Incontro Alessia Bottone in mezzo al pubblico del Bracciano Filmfestival. Elegante, capelli sciolti da ragazzina. Sguardo sagace, empatica, voce morbida. Parla con un gruppo di giovanissimi che, dopo la proiezione del suo corto Sette minuti, la circondano ammirati. Lei sorride, garbata e disponibile, forse un po’ sorpresa: “Datemi del tu, per favore”.
Realizziamo l’intervista solo dopo pochi giorni, purtroppo solo telefonica a causa dei suoi molti impegni di lavoro. Intanto le avevo chiesto un curriculum, per farmi un’idea: non me lo aspettavo tanto pieno. Alessia è “tanta roba”, come del resto rivela il triplice riconoscimento che le è arrivato a Bracciano: menzione speciale, premio della giuria giovanile, premio della giuria popolare. Dal suo curriculum, che non si riesce a riportare integralmente, emerge una laurea in Scienze Politiche, un master in sceneggiatura, la collaborazione a numerose e importanti produzioni internazionali. Realizza cortometraggi con materiali di riuso ( 7Minuti e La Napoli di mio padre, con cui e vince nel 2021 la Menzione Speciale Nastri d’Argento). Dirige e produce altri due documentari, Ritratti in controluce, Ieri come oggi. Vince inoltre alcuni premi per i suoi lavori di giornalismo d’inchiesta.
Il corto 7 Minuti pluripremiato a Bracciano è piaciuto a tutti: giovani e diversamente giovani, uomini e donne, giurie e pubblico amatoriale. Il corto parla con sensibilità e pudore di un amore terminato, un lui abbandonato dal suo compagno. Una voce narrante maschile racconta la solitudine, il rifiuto sociale di una relazione proibita, la sofferenza, i ricordi. La colonna portante del lavoro è il testo, un monologo interiore intenso e pieno , scritto dalla stessa Bottone. Le immagini d’archivio, selezionate in bianco e nero per dare l’idea dell’ambientazione anni Sessanta, sono montate con libertà, e suggeriscono analogie non scontate con la sceneggiatura.
Alessia, tu arrivi al cinema del riuso solo a partire dal 2017. E’ un cinema sperimentale, che si avvale di materiali d’archivio eventualmente montati con alcune riprese di fiction; può essere o meno presente una sceneggiatura. Come lo hai conosciuto?
Arrivo a conoscerlo per caso: con il soggetto La Napoli di mio padre risulto tra i finalisti del premio Zavattini, che chiedeva appunto soggetti da realizzare con la tecnica del riuso. Come premio riservato a i finalisti seguo un percorso formativo di sei mesi che mi apre definitivamente gli orizzonti del cinema d’archivio. E’ stato una piacevole scoperta, e mi sono resa conto che lo prediligo anche perché rappresenta al meglio il mio stile: una narrazione più lenta che mi dà più spazio per approfondire un personaggio e la sua storia.
Hai avuto dei modelli, dei riferimenti a cui ispirarti?
Nel corso del Premio Zavattini ho seguito le lezioni di Alina Marazzi, da cui ho appreso la tecnica del riuso del materiale d’archivio .Inoltre ho avuto la fortuna di poter lavorare sul set con Pietro Marcello, come assistente alla regia nel suo recente film “Duse”.
Che cosa significa per te, dal punto di vista tecnico e creativo, fare cinema d’archivio?
Significa prima di tutto avere una grande libertà : significa rivedere il montaggio dei frammenti narrativi estrapolandoli dal contesto d’archivio, significa restituire e reinventare significati sempre nuovi creando sempre nuovi contesti narrativi, in base alla storia e ai personaggi che voglio raccontare. Ci sono tante possibilità di applicare la sperimentazione d’archivio, molte sono ancora da scoprire. Rimane importante per me un sottotesto narrante, dialoghi, suoni, musica.
Come arrivi all’idea di realizzare 7 Minuti?
Nel 2021 conosco Alessandro Haber e ho con lui alcune interessanti conversazioni. Mi viene l’idea di creare una specie di sequel di Parenti e serpenti, di Monicelli, proprio per la complessità del personaggio interpretato da Haber nel film: un omosessuale costretto ad un outing forzato in una famiglia e una società che rifiutano la diversità. E’ un mondo maschile che non conosco, ma raccolgo la sfida di esercitare la mia empatia per immedesimarmi in un personaggio lontano da me, che in fondo rappresenta comunque valori universali. Non volevo una narrazione stucchevole, ma romantica e nello stesso tempo asciutta. Ho cercato le immagini più adatte selezionandole dall’Istituto Luce e da Home movies di Bologna. Le ho scelte volutamente non aderenti al testo ma più libere: dovevano suggerire , far immaginare, più che illustrare.
Cosa ha significato per te l’esperienza del filmfestival di Bracciano?
Mi è piaciuta l’organizzazione, gestita da un collettivo di ragazzi premurosi, precisi, con un forte amore per il loro lavoro. Mi ha particolarmente emozionata l’incontro con i giovanissimi, e con i professori che li hanno accompagnati. Sono certa che questa esperienza sia fondamentale per la loro formazione.
Grazia Caruso